A new modernity is emerging, reconfigured to an age of globalisation – understood in its economic, political and cultural aspects: an altermodern culture. Increased communication, travel and migration are affecting the way we live. Our daily lives consist of journeys in a chaotic and teeming universe. Multiculturalism and identity is being overtaken by creolisation: Artists are now starting from a globalised state of culture. This new universalism is based on translations, subtitling and generalised dubbing. Today’s art explores the bonds that text and image, time and space, weave between themselves. Artists are responding to a new globalised perception. They traverse a cultural landscape saturated with signs and create new pathways between multiple formats of expression and communication. The Tate Triennial 2009 at Tate Britain presents a collective discussion around this premise that postmodernism is coming to an end, and we are experiencing the emergence of a global altermodernity. Travel, cultural exchanges and examination of history are not merely fashionable themes, but markers of a profound evolution in our vision of the world and our way of inhabiting it. More generally, our globalised perception calls for new types of representation: our daily lives are played out against a more enormous backdrop than ever before, and depend now on trans-national entities, short or long-distance journeys in a chaotic and teeming universe. Many signs suggest that the historical period defined by postmodernism is coming to an end: multiculturalism and the discourse of identity is being overtaken by a planetary movement of creolisation; cultural relativism and deconstruction, substituted for modernist universalism, give us no weapons against the twofold threat of uniformity and mass culture and traditionalist, far-right, withdrawal. The times seem propitious for the recomposition of a modernity in the present, reconfigured according to the specific context within which we live – crucially in the age of globalisation – understood in its economic, political and cultural aspects: an altermodernity. If twentieth-century modernism was above all a western cultural phenomenon, altermodernity arises out of planetary negotiations, discussions between agents from different cultures. Stripped of a centre, it can only be polyglot. Altermodernity is characterised by translation, unlike the modernism of the twentieth century which spoke the abstract language of the colonial west, and postmodernism, which encloses artistic phenomena in origins and identities. We are entering the era of universal subtitling, of generalised dubbing. Today’s art explores the bonds that text and image weave between themselves. Artists traverse a cultural landscape saturated with signs, creating new pathways between multiple formats of expression and communication. The artist becomes ‘homo viator’, the prototype of the contemporary traveller whose passage through signs and formats refers to a contemporary experience of mobility, travel and transpassing. This evolution can be seen in the way works are made: a new type of form is appearing, the journey-form, made of lines drawn both in space and time, materialising trajectories rather than destinations. The form of the work expresses a course, a wandering, rather than a fixed space-time. Altermodern art is thus read as a hypertext; artists translate and transcode information from one format to another, and wander in geography as well as in history. This gives rise to practices which might be referred to as ‘time- specific’, in response to the ‘site-specific’ work of the 1960s. Flight-lines, translation programmes and chains of heterogeneous elements articulate each other. Our universe becomes a territory all dimensions of which may be travelled both in time and space.
Il radicante. Per un'estetica della globalizzazione di Nicolas Bourriaud © 2014 Postmedia Srl, Milano Radicant: Pour une esthétique de la globalisation © 2009 Nicolas Bourriaud Traduzione dal francese di Marco Enrico Giacomelli Cover by Yulia Shmeleva www.postmediabooks.it ISBN 978-88-7490-1005
Il radicante Per un'estetica della globalizzazione Nicolas Bourriaud postmedia books
Parte prima Altermodernità ~ Radici. Critica della ragione postmoderna 25 ~ Radicali e radicanti 45 ~ Victor Segalen e il creolo del XXI secolo 61 Parte seconda L'estetica radicante ~ Precarietà estetica e forme erranti 81 Senza forma fissa (materiali clochard) Erranza urbana Coda: estetiche revocabili ~ Forme-tragitto 117 Forma-tragitto 1: spedizioni e parade Forma-tragitto 2: topologia Forma-tragitto 3: Biforcazioni temporali ~ Transfert 145 Traslazioni, transcodifiche, traduzioni La «condizione postmediale» Forme tradotte
Parte terza Trattato di navigazione ~ Sotto la pioggia culturale 159 (Louis Althusser, Marcel Duchamp e l'uso delle forme artistiche) Appropriazione e neoliberismo Esempio n. 1: Marcel Duchamp, Ruota di bicicletta (1913) Esempio n. 2: Marcel Duchamp, LHOOQ Esempio n. 3: Marcel Duchamp, il «readymade reciproco» L’interforma ~ Il collettivismo artistico e la produzione di percorsi 173 Arte globale o arte del capitalismo Arte d’appropriazione o comunismo formale Estetica della «replica»: la defeticizzazione dell’arte ~ Post-post, o i tempi altermoderni 191
Avvertenza Questo libro è stato scritto fra il 2005 e il 2008 nei luoghi dove mi hanno portato le circostanze: Parigi, Venezia, Kiev, Madrid, L'Avana, New York, Mosca,Torino e infine Londra. Città, luoghi piuttosto che Paesi. Le nazioni sono astrazioni di cui diffido e vedremo il perché. È meglio cercare dunque in un modo di vita le fonti di questa riflessione teorica sull’arte contemporanea. Fonti che riflettono l’esperienza vissuta piuttosto che testi pubblicati: ho biasimato sin troppo spesso l’assenza di legame vitale fra critici e opere per non sottolineare che questa riflessione teorica nasce da una vita nomade, nel corso della quale ho incrociato la maggioranza degli artisti di cui parlerò. Le idee espresse in questo libro provengono in gran parte dalla loro frequentazione e dall’assidua osservazione dei loro lavori. Multiculturalismo. Postmoderno. Globalizzazione culturale. Sono queste le parole-chiave a partire dalle quali si organizza questo saggio, parole che rimandano a questioni insolute. Com’è noto, lungi dall’affrontare il fascio di problemi che designano, certe nozioni generiche si limitano a nominarli. Una domanda lacerante costituisce quindi il punto di partenza di questo lavoro teorico: perché la globalizzazione è stata commentata così tanto da un punto di vista sociologico, politico, economico, e quasi mai secondo una prospettiva estetica? Come influisce questo fenomeno sulla vita delle forme? il radicante 9
nicolas bourriaud10 Riflettendo sull’importanza acquisita dal viaggio e dall’iconografia della mobilità nell’arte contemporanea, mi sono ricordato di un testo che avevo pubblicato nel 1990 sulla rivista «New Art International», intitolato Notes on Radicantity. Qui non faccio altro che sviluppare e approfondire quell’intuizione giovanile, che allora si fondava su un numero limitato di esempi. Eccezion fatta per la terza parte, Il radicante1 è totalmente inedito, tranne due capitoli. Sotto la pioggia culturale fu pubblicato sul catalogo Sonic Process del Centre Pompidou; una versione riveduta figurava in Hz, in occasione di una mostra alla Schirn Kunsthalle di Francoforte. Il collettivismo artistico e la produzione di percorsi introduceva la mostra Playlist, che organizzai al Palais deTokyo nel 2005. Un’immagine, un’idea: è il ritmo che ho voluto imprimere a questo saggio. La lettura di Walter Benjamin e Georges Bataille mi ha insegnato che l’esposizione di un tema per frammenti, una scrittura disorganica ed errante può talvolta circoscrivere meglio il proprio oggetto piuttosto che tanti sviluppi rettilinei. In ogni caso, questo metodo corrisponde al soggetto che intendo trattare. Ho così concepito il libro come una sorta di presentazione in Powerpoint: un’immagine, un orientamento. O ancora: una collana i cui elementi sono collegati gli uni agli altri dal potere prensile di un’idea fissa, un arcipelago concettuale che corrisponde altresì all’immagine centrale di questo saggio. Ciò nondimeno, Il radicante è composto da tre parti distinte: la prima affronta il soggetto in maniera teorica; la seconda consiste in una riflessione estetica a partire da opere d’arte recenti; la terza estende il pensiero radicante ai modi di produzione della cultura, poi ai modi in cui viene consumata e usata. Infine, scrivendo questo libro ho tentato di non perdere mai di vista una rigorosa ossessione: guardare il mondo attraverso quello strumento ottico che è l’arte, al fine di abbozzare una «critica d’arte del mondo» nella quale le opere dialogano con il contesto in cui sono prodotte. 1. In botanica, con ‘radicante’ (ad es. ‘ormone radicante’) si intende una sostanza che ha la funzione di facilitare la riproduzione e la crescita delle radici. [N.d.T.]
Introduzione IL 9 NOVEMBRE 1989 CADE IL MURO DI BERLINO Sei mesi prima, esattamente il 18 maggio, veniva inaugurata la mostra Magiciens de la terre, con il sottotitolo «Prima esposizione mondiale d’arte contemporanea» perché riuniva gli artisti di tutti i continenti: così un artista concettuale americano fiancheggiava un sacerdote voodoo haitiano, un pittore d’insegne di Kinshasa esponeva accanto a grandi nomi dell’arte europea1. A partire da quel grande mixer che fu Magiciens de la terre si può datare l’ingresso ufficiale dell’arte in quello che ormai è il nostro mondo globalizzato e privo di «grandi narrazioni». Questa improvvisa irruzione di individui provenienti da paesi allora definiti «periferici» nella sfera contemporanea corrisponde alla nascita di quella tappa del capitalismo integrale che, vent’anni più tardi, prenderà il nome di globalizzazione. D’altronde, se quella mostra poteva alimentare una certa confusione tra le figure dell’artista, del sacerdote e dell’artigiano, va da sé che le forti polemiche che suscitò erano collegate al crollo dell’alternativa simbolica rappresentata dal mondo comunista. Con la fine del bipolarismo Usa-Urss era sopraggiunta anche la fine della storia: è almeno quel che sostenne il filosofo americano Francis Fukuyama in un testo che, pubblicato poco dopo l’apertura della cortina di ferro, ebbe un’enorme eco. Riaddormentatevi, soggetti del nuovo ordine mondiale... In ogni caso, divenne evidente che la Storia non era più il valore supremo che permetteva di ordinare e gerarchizzare i segni artistici. il radicante 11
nicolas bourriaud12 Fino ad allora, quella dell’arte del XX secolo si profilava come una successione di invenzioni formali, una sequela di avventure individuali e collettive che trasmettevano una nuova visione dell’arte. Ma quel tempo era finito e il pensiero postmoderno, comparso durante il decennio precedente, poteva infine trionfare. Noi facciamo parte della «post-Storia»: un’era di conquiste per l’economia capitalista ormai sovrana, ove è insediata una cultura libera dal presunto «terrore» diffuso dalle avanguardie. Il modernismo? Un luogo comune umanista e universalista, una macchina coloniale dell’Occidente. Il mondo intero sarebbe diventato «contemporaneo»: bastava aspettare – come testimoniava il boom economico asiatico – che i Paesi «in ritardo» seguissero alla lettera le raccomandazioni del Fondo Monetario Internazionale e che connettessero sulla matrice capitalista le loro «vecchie e complicate culture». Lo sviluppo della cultura urbana facilitava questo movimento: l’esplosione mondiale delle megalopoli, da Città del Messico a Shanghai, contribuì all’emergere di un vocabolario formale planetario, al punto che si potrebbe definire l’arte del nostro tempo un’arte delle metapolis, il cui paradosso risiede tuttavia nella propensione a fare della distesa desertica o della foresta vergine dei pilastri del suo immaginario... La fine della Storia assumerà la forma brulicante della città standardizzata e globalizzata? Siamo veramente così lontani dalle utopie, dalla radicalità e dalle avanguardie che hanno segnato il XX secolo? Anche se «tutti hanno detto che la fine del comunismo significava la morte dell’utopia e che ora si entrava nel modo del reale e dell’economia», ironizza Slavoj Žižek, tutto lascia pensare che, al contrario, gli anni Novanta «siano stati l’autentica esplosione dell’utopia, di un’utopia capitalista liberale che avrebbe dovuto risolvere tutti i problemi. Dopo l’11 settembre sappiamo che le divisioni ci sono ancora, eccome»2. La «post-Storia» è un concetto vuoto, proprio come quello di «postmodernità»; ha un senso meramente circostanziale, poiché riveste il ruolo di un software di gestione del dopo-modernismo. Il prefisso ‘post’, del quale si può assaporare l’ambiguità, in fondo non è servito ad altro che a federare le varie versioni di questo dopo, da un post-strutturalismo critico fino a opzioni chiaramente passatiste3. Quanto alla celeberrima «ibridazione culturale», nozione tipicamente postmoderna, si è rivelata
una macchina per dissolvere qualsiasi autentica singolarità dietro la maschera di un’ideologia «multiculturalista»; una macchina per cancellare l’origine degli elementi «tipici» e «autentici», che propaga al tronco della tecnosfera occidentale. La presunta diversità culturale, preservata sotto la campana di vetro del «patrimonio dell’umanità», si rivela essere il riflesso speculare della standardizzazione generale degli immaginari e delle forme: più l’arte contemporanea integra in sé vocabolari plastici eterogenei, provenienti da molteplici tradizioni visive non-occidentali, più chiaramente appaiono i tratti distintivi di una cultura unica e globalizzata. Il «dialogo fra le culture» dei discorsi ufficiali non deriva forse da una visione del mondo come catena di parchi naturali protetti? È quell’umanismo animale che Alain Badiou definisce come un umanismo senza alcun progetto, se non quello di proteggere gli ecosistemi esistenti: «Bisogna vivere nel nostro “villaggio planetario”», scrive, «lasciar fare alla natura, affermare ovunque i diritti naturali. Le cose hanno una loro natura che bisogna rispettare. [...] L’economia di mercato, per esempio, è naturale: basta trovare il suo equilibrio, tra un ahimé inevitabile numero di ricchi e la massa di poveri, allo stesso modo in cui bisogna rispettare l’equilibrio tra i ricci e le lumache»4. Le differenze culturali, mummificate in uno sciroppo compassionevole, saranno così salvaguardate nel villaggio globale, probabilmente al fine di arricchire i parchi a tema che il turismo culturale si regalerà. Dobbiamo rimpiangere l’universalismo modernista? Non più. È inutile tornare qui sul colonialismo (inconscio o meno) che gli è consustanziale, sulla sua propensione a paragonare le differenze con i passatismi e a imporre ovunque le sue norme, il suo racconto storico e i suoi concetti come se fossero «naturali» e quindi condivisibili da tutti. Nel modello modernista, spiega Thomas McEvilley, la Storia non è altro che una «linea unica che progredisce sulla pagina del tempo, attorniata dagli ampi vuoti antistorici della natura e del mondo non sviluppato»5. Le culture non-occidentali? Non-storiche, quindi inconsistenti. I feticci baulé? Privi di autore, emanazione di una tribù indifferenziata, legna da ardere nella caldaia del Progresso. A partire dagli anni Ottanta numerosi critici si sono adoperati per decostruire questo discorso. Il tema della liberazione delle minoranze alienate ha soppiantato la persuasiva retorica del modernismo, rendendo però ogni enunciato oggetto di un grave sospetto: l’universale moderno non sarebbe stato nulla più che la maschera dietro la quale si camuffa il radicante 13
nicolas bourriaud14 la voce del «maschio bianco» dominante. La teoria della decostruzione, incarnata da Jacques Derrida, permette a chi la pratica di esporre le tracce di un «non-detto» omofobo, razzista, fallocentrico o sessista sotto la superficie dei testi fondanti il modernismo politico, filosofico o estetico. Doppia negazione, sordità specchio: la scena postmoderna reinterpreta infinitamente la cesura fra il colonizzatore e il colonizzato, il padrone e lo schiavo, sostando su quella stessa frontiera che costituisce il suo oggetto di studio, e dunque preservandola tale e quale: universalismo moderno o relativismo postmoderno, ci vien detto che non c’è altra scelta. La decostruzione postcoloniale ha così contribuito a sostituire una lingua con un’altra, l’una accontentandosi di sottotitolare l’altra, senza mai avviare il processo di traduzione che fonderebbe un possibile dialogo tra passato e presente, tra universale e mondo delle differenze. Poiché il pensiero postmoderno si presenta come una metodologia della decolonizzazione, in seno alla quale la decostruzione (per com’è praticata nel quadro dei cultural studies più che come la intendeva Derrida) serve a indebolire e delegittimare la lingua principale a profitto di una cacofonia impotente. Emancipazione, resistenza, alienazione: questi concetti, scaturiti dalla filosofia dell’Illuminismo, e che le lotte anticoloniali e successivamente i postcolonial studies criticano al tempo stesso legittimandoli, sono diventati ostacoli concettuali dai quali bisognerebbe liberarsi al fine di ripensare diversamente il rapporto fra le opere contemporanee da un lato e il potere e la politica dall’altro. I tempi paiono propizi per la ricomposizione del moderno al presente, per riconfigurarlo in funzione del contesto specifico in cui viviamo. Poiché esiste un eone moderno, un afflato intellettuale che attraversa il tempo, un modo del pensiero che assume la forma impressagli dalle circostanze e che si formatta sui contorni puntuali dell’avversità che ogni epoca gli oppone. Questo avversario porta oggi mille nomi, fra i quali si contano il succitato umanismo animale, le molteplici nostalgie del vecchio ordine e, in primis, l’omogeneizzazione del pianeta sotto le mentite spoglie della globalizzazione economica. Sebbene questo afflato, questo fluido moderno non si sia ancora coagulato in una forma identificabile e originale, possiamo tuttavia sin d’ora e senza alcun problema intuire ciò contro cui deve esercitarsi oggi... Così si può affermare che, all’inizio di questo secolo, è possibile rifarsi al concetto di modernità senza provare neppure
per un istante il senso di un arretramento e senza nemmeno ignorare le salutari critiche alle tentazioni totalitarie e alle pretese colonialiste del modernismo del secolo scorso. Avanguardia, universalismo, progresso, radicalità: sono tutte nozioni legate al modernismo di ieri, alle quali non è affatto necessario aderire nuovamente per rivendicare la modernità; vale a dire, in verità, per fare un passo al di là delle linee postmoderne, delle frontiere nate da una Yalta estetica che delimita contrade, o poco più, ove regna la convenzione più piatta. Numerosi artisti e autori hanno già compiuto questo passo senza che si sia ancora dato un nome allo spazio inedito nel quale brancolano. Ma costoro portano al cuore delle loro pratiche i principi essenziali a partire dai quali potrebbe ricostituirsi una modernità. Principi che si potrebbero enumerare: il presente, la sperimentazione, il relativo, il fluido. Il presente, perché il moderno («che appartiene al proprio tempo»: questa è la sua definizione storica) è una passione per l’attuale, per l’oggi in quanto germe e inizio; contro le ideologie conservatrici che lo vorrebbero imbalsamare, contro i movimenti reazionari il cui ideale sarebbe la restaurazione di questo o quest’altro precedente, ma anche – ed è ciò che distingue la nostra modernità dalle precedenti – contro le prescrizioni futuriste, le teleologie d’ogni natura e la radicalità che le accompagnano. La sperimentazione, perché essere moderni significa arrischiarsi a cogliere l’occasione, il kairos. Significa avventurarsi: non essere soddisfatti della tradizione, delle formule e delle categorie esistenti, ma aprire nuovi cammini, fare da guida. Per restare all’altezza di questo rischio occorre pure rimettere in questione la solidità delle cose, praticare un relativismo generalizzato, un comparativismo critico spietato nei confronti delle certezze più incrollabili; riconoscere che le strutture istituzionali o ideologiche che ci inquadrano sono circostanziali, storiche e dunque riformabili a nostro piacere. «Non vi sono fatti, ma solo interpretazioni», scriveva Nietzsche6. È la ragione per cui il moderno è partigiano dell’evento contro l’ordine monumentale, dell’effimero contro gli agenti di un’eternità marmorea; è un’apologia della fluidità contro l’onnipresenza della reificazione7. Se intendiamo «ripensare moderno» all’inizio di questo secolo (cioè, quindi, superare il periodo storico definito dal postmoderno), occorre affrontarlo a partire dalla globalizzazione, considerata nei suoi aspetti economici, politici e culturali. E, più ancora, a partire da un’abbagliante il radicante 15
nicolas bourriaud16 evidenza: se il modernismo del XX secolo fu un fenomeno culturale puramente occidentale, declinato in un secondo tempo da artisti del mondo intero, oggi va preso in considerazione l’equivalente globale, vale a dire che bisogna inventare modi di pensiero e pratiche artistiche innovatrici. E stavolta sarebbero direttamente informati dall’Africa, dal Sudamerica o dall’Asia, i cui parametri integrerebbero i modi di pensare e fare in corso nel Nunavut, a Lagos o in Bulgaria. La tradizione africana non ha più da influenzare nuovi dadaisti in una futura Zurigo, né le stampe giapponesi ispirare i Manet di domani. Gli artisti, a qualunque latitudine, hanno oggi il compito di prendere in considerazione quella che sarà la prima cultura realmente mondiale. Ma un paradosso porta con sé questa missione storica, la quale avrà luogo contro quello sviluppo non politico che si chiama «globalizzazione», e non nel suo solco... Affinché questa cultura emergente possa nascere dalle differenze e dalle singolarità, invece che allinearsi alla standardizzazione in corso, dovrà sviluppare un immaginario specifico e ricorrere a tutt’altra logica rispetto a quella che presiede alla globalizzazione capitalista. Nel XIX secolo, in Europa, la modernità si è cristallizzata intorno al fenomeno dell’industrializzazione; in quest’inizio di XXI secolo la mondializzazione economica sconvolge le nostre maniere di vedere e fare con una brutalità simile. È la nostra «barbarie», termine col quale Nietzsche chiamava quel registro di forze che mandano in pezzi le vecchie frontiere, ricomponendo lo spazio dei «lavoratori»8. Secondo l’International Migration Report 2002 dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, dagli anni Settanta il numero dei migranti è raddoppiato: circa 175 milioni di persone vivono al di fuori del loro luogo d'origine. È una cifra che continua a crescere e che probabilmente è sottostimata. L’intensificazione dei flussi migratori e finanziari, la banalizzazione dell’espatrio, la densificazione delle reti di trasporti e l’esplosione del turismo di massa disegnano nuove culture transnazionali, le quali scatenano violenti ripiegamenti identitari, etnici o nazionali. Poiché, se esistono circa 6.000 lingue nel mondo, soltanto il 4% di esse sono utilizzate dal 96% della popolazione mondiale. Per di più, la metà di questi 6.000 idiomi sono in via di estinzione... Dai miei primi viaggi in India negli anni Ottanta ho potuto assistere alla spettacolare progressione degli standard occidentali all’interno di una cultura assai autarchica: le star americane riempiono ormai le pagine
glamour dei quotidiani nazionali, pullulano gli shopping mall... Una nuova generazione di artisti utilizza con abilità i codici dell’arte contemporanea internazionale. Questo movimento di uniformazione va di pari passo con la contrazione immaginaria del pianeta, che si accompagna ai perfezionamenti della sua rappresentazione. Le immagini satellitari hanno così permesso di colmare gli ultimi spazi vuoti che figuravano sulla mappa del mondo: non esistono più terre sconosciute.Viviamo nell’era di Google Earth, che ci permette di zoomare dal nostro computer su qualunque punto del pianeta. Uno strato culturale mondializzato si sviluppa con una folgorante rapidità sulla superficie di questo globo scansionato; uno strato che è nutrito da internet e dalla comunicazione reticolare dei grandi media, mentre i particolarismi locali o nazionali sono condannati a esser «protetti» come i rinoceronti tanzaniani in via di estinzione. Nel 1955, in Tristi tropici, Claude Lévi-Strauss già si preoccupava di questa disastrosa «monocultura» che inaridisce l’immaginario e i modi di vita sulla superficie della Terra. Nel corso di un viaggio nelle Antille l’etnologo francese visita diverse rhumerie: in Martinica, dove i procedimenti di fabbricazione erano rimasti immutati dal XVIII secolo, aveva potuto degustare una bevanda «pastosa e profumata», mentre i nuovi stabilimenti di Porto Rico, «spettacolo di serbatoi di smalto e di rubinetterie cromate», producono un alcool brutale e senza raffinatezza. Questo contrasto, secondo l’etnologo, illustra «il paradosso della civiltà la cui seduzione deriva essenzialmente dai residui che essa trasporta nel suo fluire senza che noi possiamo tuttavia impedirci di chiarirlo»9. Il rum di Lévi-Strauss è l’esempio perfetto di quella «modernità» generica, oramai sinonimo di progresso tecnico e uniformazione. Nell’uso comune, la parola ‘modernizzare’ ha assunto il senso di una riduzione della realtà culturale e sociale ai format occidentali, e il modernismo si riassume oggi in una forma di complicità con il colonialismo e l’eurocentrismo. Noi puntiamo invece su una modernità che, lungi dall’essere un assurdo calco di quella del secolo precedente, è specifica della nostra epoca ed echeggia le sue problematiche: una altermodernità – osiamo il termine – di cui questo libro tenta di abbozzare le problematiche e le configurazioni. Da una trentina d’anni il paesaggio culturale mondiale è modellato da un lato dalla pressione di una sovrapproduzione di oggetti e di informazione, dall’altro dall’uniformazione galoppante delle culture e dei linguaggi. La il radicante 17
nicolas bourriaud18 massa caotica di oggetti culturali e opere in cui ci muoviamo comprende sia la produzione presente che quella passata, poiché il museo immaginario si estende ormai alla totalità delle civiltà e dei continenti, mentre prima non era così: «Per Baudelaire, la scultura inizia con Donatello», ricordava Malraux. Per un appassionato dei nostri giorni, include tanto l’arte caraibica quanto i peluche meccanizzati di Paul McCarthy, l’atelier di Donald Judd inTexas e il tempio di Angkor. Internet è il mezzo privilegiato per questa proliferazione di informazioni ed è il simbolo materiale di questa atomizzazione del sapere in nicchie specializzate e interdipendenti. Ciò che il postmoderno chiama ibridazione consiste nell’innestare sul tronco di una cultura popolare divenuta uniforme delle «specificità» che, nella maggior parte dei casi, sono caricaturali, così come si profumano con diversi flavour sintetici gli zuccherifici industriali. Soltanto due modelli culturali, fra loro contraddittori, sembrano oggi opporsi a queste semplificazioni: da un lato il ripiegamento identitario, contrazione su valori estetici tradizionali e locali; dall’altro quel che si chiama creolizzazione, sul modello caraibico di acclimatazione e incroci di influenze eterogenee. «Il mondo si creolizza», spiega lo scrittore antillese Édouard Glissant, «cioè [...] le culture del mondo, messe oggi in contatto in modo simultaneo e assolutamente cosciente, cambiano scambiandosi colpi irrimediabili e guerre senza pietà, ma anche attraverso i progressi della coscienza e della speranza» . In un mondo che si uniforma ogni giorno di più, non potremo difendere la diversità se non innalzandola al livello di un valore (al di là del suo potere d’attrazione esotico immediato e dei riflessi condizionati di conservazione), cioè costituendola come categoria di pensiero. Sennò, perché la diversità? Perché sarebbe più desiderabile dell’esperanto culturale globalizzato che, dopotutto, rappresenta la realizzazione della vecchia fantasia di una cultura mondiale? I testi di Victor Segalen, sorprendente scrittore-viaggiatore francese scomparso nel 1919, costituiscono un notevole spunto di riflessione: il suo Saggio sull’esotismo, al contrario di tutte le analisi moderniste, è una perorazione del «diverso» contro l’appiattimento generalizzato delle differenze, di cui Segalen intuisce le disastrose conseguenze al limitare del XX secolo. In questo libro viene definita una figura nuova, quella dell’esota. Essa ci aiuta a vederci più chiaro nell’arte di oggi, assillata
dalle figure del viaggio, della spedizione, della dislocazione planetaria. Come abbiamo detto, la più comune reazione di difesa consiste nell’esaltare la differenza in quanto sostanza: se sono ucraino, egiziano o italiano dovrei dunque conformarmi, contro le forze di sradicamento (venti malefici che soffiano da non si sa dove), a tradizioni storiche nazionali che mi permettono di strutturare la mia presenza al mondo su un modo identitario. Nato da un contesto specifico, eccomi costretto a perpetuare le vecchie forme che mi differenziano dagli altri. Ma chi sono gli altri? È sorprendente constatare che, in ultima istanza, la questione identitaria si pone in maniera acuta per le comunità immigrate nei paesi più «mondializzati»: le antenne paraboliche nei ghetti comunitari, la reclusione all’interno di costumi intrasponibili nel paese d’accoglienza, gli innesti che non prendono... Sono le radici che fanno soffrire gli individui: nel nostro mondo globalizzato persistono alla maniera di quegli arti fantasma la cui amputazione procura un dolore impossibile da combattere, poiché alimentato una sostanza che non esiste più. Piuttosto che opporre una radice fissa a un’altra, un’«origine» mitizzata a un «suolo» integratore e uniformante, non sarebbe più giudizioso fare appello ad altre categorie di pensiero, suggerite d’altronde da un immaginario mondiale in piena mutazione? 175 milioni d’individui che vivono sul pianeta in un esilio più o meno volontario (circa dieci milioni in più ogni anno), la banalizzazione del nomadismo professionale, una circolazione senza precedenti di beni e servizi, la costituzione di entità politiche transnazionali: questa inedita situazione non potrebbe dar luogo a una nuova maniera di concepire l’identità culturale? Parliamo in termini botanici. Il mondo contemporaneo, organizzando le condizioni materiali del movimento, facilita i nostri trapianti. Vasi di fiori, vivai, serre, aperta campagna... È forse un caso se il modernismo fu da parte a parte un elogio delle radici? Fu radicale. Nel corso del XX secolo i manifesti artistici (o politici) fecero appello a un ritorno all’origine dell’arte o della società, alla loro epurazione al fine di ritrovarne l’essenza. Si trattava di tagliare i rami inutili, di sottrarre, eliminare, reinizializzare il mondo a partire da un principio unico, presentato come la fondazione di un nuovo linguaggio liberatore. Noi scommettiamo invece che la modernità del nostro secolo si inventerà proprio all’opposto di ogni radicalismo, rigettando sia la cattiva soluzione del re-radicamento il radicante 19
nicolas bourriaud20 identitario, sia la standardizzazione degli immaginari decretata dalla globalizzazione economica. I creatori contemporanei gettano già le basi di un’arte radicante, epiteto che indica un organismo che fa spuntare le proprie radici e le accresce man mano che procede. Essere radicanti: mettere in scena, mettere in cammino le proprie radici in contesti e format eterogenei; negar loro la possibilità di definire completamente la nostra identità ; tradurre le idee, transcodificare le immagini, trapiantare i comportamenti, scambiare piuttosto che imporre. E se la cultura del XXI secolo si inventasse con queste opere, che progettualmente cancellano la loro origine a profitto di una moltitudine di radicamenti simultanei o successivi? Questo processo di obliterazione fa parte della condizione dell’errante, figura centrale della nostra era precaria, che emerge e insiste al cuore della creazione artistica contemporanea. Questa figura si accompagna a un campo di forme, quello della forma- tragitto, e a un modo etico, la traduzione, di cui questo libro vorrebbe elencare le modalità e mostrare il ruolo capitale che riveste nella cultura contemporanea.
1. Concepita da Jean-Hubert Martin, 7. Per un racconto transtorico della era allestita al Centre Pompidou e alla modernità, obbediente all’imperativo Grande Halle de LaVillette. categorico «fai della tua vita un’opera d’arte», cfr. Nicolas Bourriaud, Formes de 2. Slavoj Žižek, Le Nouveau philosophe vie, Denoël, Paris 1999. [intervista con Aude Lancelin], in «Le Nouvel Observateur», 11 novembre 2004. 8. Cfr. La gaia scienza, trad. it. di F. Masini, in Id., Opere, vol.V, t. 2, Adelphi, Milano 3. Cfr. Hal Foster, Il ritorno del reale, trad. 19912. it. di B. Carneglia, Postmedia Books, Milano 2006, pp. 19-50. 9. Claude Lévi-Strauss, Tristi tropici, trad. it. di B. Garufi, Il Saggiatore, Milano 4. Alain Badiou, Il secolo, trad. it. diV. 2008, p. 329. Verdiani, Feltrinelli, Milano 2006, p. 195. 10. Edouard Glissant, Poetica del diverso, 5.Thomas McEvilley, Art and Discontent, trad. it. di F. Neri, Meltemi, Roma 1998, McPherson, Kingston (NY) 1992, p. 118. pp. 13-14. [Trad. modificata, N.d.T.] 6. La celeberrima frase è contenuta nei Frammenti postumi. Per una sua contestualizzazione, cfr. Genealogia della morale, trad. it. di F. Masini, in Opere, vol. VI, t. 2, Adelphi, Milano 1968. [N.d.T.] il radicante 21
Radici Critica della ragione postmoderna Per il pensiero estetico contemporaneo, la «dimensione critica» dell’arte rappresenta il criterio di giudizio più diffuso. Leggendo cataloghi e riviste d’arte, ci rendiamo conto che diffondono meccanicamente questa ideologia del sospetto ed ergono il coefficiente «critico» delle opere a criterio che permette di distinguere fra interessante e insignificante: si ha l’impressione che le opere stesse non siano più valutate ma scelte su una catena destinata a calibrarle. Queste buone calibrazioni sono pubblicamente note: regnavano già alla fine del XIX secolo, altra epoca in cui l’accademismo privilegiava il soggetto (che non va confuso con il contenuto) a scapito della forma (che non si riassume nel piacere retinico). I tempi postmoderni vedono di nuovo delle opere ostentare sentimenti edificanti dietro l’apparenza di una «dimensione critica», delle immagini che si sdoganano dalla loro indigenza formale facendosi scudo con uno statuto minoritario o militante, dei discorsi estetici che esaltano la differenza e il «multiculturale» senza troppo sapere il perché. Le numerose teorie estetiche scaturite dalla nebulosa del postcolonialismo culturale si sono arenate nell’elaborare una critica dell’ideologia modernista che non conduce a un relativismo assoluto o all’impilamento degli «essenzialismi». Nella loro versione dogmatica queste teorie giungono ad annullare ogni possibilità di dialogo fra individui che non condividono la medesima storia o la stessa «identità culturale». Il rischio non va sottovalutato: a forza di caricature, l’ideologia comparatista sottesa agli studi postcoloniali prepara un’atomizzazione completa dei riferimenti e dei criteri di giudizio estetici. il radicante 25
44 1. Homi K. Bhabha, I luoghi della cultura, 11. Judith Butler, Corpi che contano, nicolas bourriaud trad. it. di A. Perri, Meltemi, Roma 2001. trad. it. di S. Capelli, Feltrinelli, Milano 2. Michael Hardt eToni Negri, Impero, 1996, p. 177. trad. it. di A. Pandolfi, Rizzoli, Milano 12.Walter Benjamin, L’opera d’arte 2003, p. 148. nell’epoca della sua riproducibilità 3. Cit. in Slavoj Žižek, Benvenuti nel tecnica, trad. it. di E. Filippini, Einaudi, deserto del reale, trad. it. di P.Vereni, Torino 19912, p. 22. Meltemi, Roma 2002, p. 73. 13. Il passo citato da Bourriaud non 4. Gayatri Spivak, In Other Worlds, compare nell’edizione italiana. Lo Methuen, NewYork 1987, p. 205. abbiamo perciò tratto dalla traduzione francese: L’œuvre d’art à l’ère de sa 5. Jean-Hubert Martin (éd. par), Partages reproductibilité technique, trad. fr. di d’exotismes, Réunion des Musées M. de Gandillac, in Id., Essais, Denoël- Nationaux, Lyon 2000, p. 124. Gonthier, Paris 1983, vol. II, p. 104. [N.d.T.] 6. Cfr. Hal Foster, Il ritorno del reale, op. cit., pp. 177-184. 14.Walter Benjamin, L’opera d’arte..., op. cit., p. 36. 7. In italiano nel testo. [N.d.T.] 8. Jean-Paul Sartre, Taccuini della 15. Ibid., p. 34. strana guerra, trad. it. di P.-A. Claudel, 16. Ibid., p. 32. Acquaviva, Acquaviva delle Fonti (BA) 17. Ibid., p. 34. 2002, vol. I, pp. 270. 9. Claude Lévi-Strauss, Razza e storia, 18. Ibid., p. 25. [N.d.T.] trad. it. di P. Caruso, in Id., Razza e storia. Razza e cultura, Einaudi,Torino 2002, p. 42. 10.Trad. it. di C. Cignetti, Einaudi,Torino 2007. [N.d.T.]
Radicali e radicanti Per meglio cogliere la posta in gioco in questo movimento di scollamento delle identità e dei segni, è importante tornare sul modernismo ossessionato dalla passione per la radicalità. Sfrondare, epurare, eliminare, sottrarre, far ritorno a un principio primo: tale fu il denominatore comune di tutte le avanguardie del XX secolo. L’inconscio per il surrealismo, la nozione di scelta per il readymade duchampiano, la situazione vissuta per l’Internazionale Situazionista, l’assioma «arte = vita» per il movimento Fluxus, il piano del quadro per il monocromo... Sono altrettanti principi a partire dai quali si dispiega, nell’arte moderna, una metafisica della radice. Tornare al punto di partenza per ricominciare dall’inizio e fondare un nuovo linguaggio sgombro dalle scorie. Alain Badiou paragona questa passione per la «sottrazione» a un lavoro di epurazione, senza obliterare le sinistre connotazioni politiche del termine: nel modernismo, scrive, si manifesta sempre una «passione del cominciamento», cioè la necessità di fare il vuoto, tabula rasa come condizione preliminare di un discorso che inaugura e getta i semi dell’avvenire: la radice. Se «la forza si acquista mediante l’epurazione della forma»1, allora il Quadrato bianco su fondo bianco di Kazimir Malevič è «un simbolo della distruzione della pittura»2. Questo perpetuo ritorno all’origine operato dalle avanguardie implica che, nel regime radicale dell’arte, il nuovo diventi un criterio estetico in sé, fondato su un’antecedenza, sullo stabilimento di una genealogia all’interno della quale si distribuiranno ulteriormente una gerarchia e dei valori. il radicante 45
nicolas bourriaud60 fra loro secondo vie scelte dall’artista. Da parte sua, l’altermodernità contemporanea nasce nel caos culturale prodotto dalla globalizzazione e dalla mercificazione del mondo: deve così conquistare la propria autonomia nei confronti dei diversi modi di assegnazione identitaria, resistere alla standardizzazione dell’immaginario fabbricando circuiti e modi di scambio fra i segni, le forme e i modi di vita. 1. Alain Badiou, Il secolo, op. cit., p. 69. 9. Benjamin Buchloch, Allegorical Procedures, in «Artforum», n.21, 2. Ibid., p. 72. settembre 1982. Poi in Alexander Alberro e Sabeth Buchmann (eds.), Art 3. Questa analogia fra radicalità e After Conceptual Art,The MIT Press, paternalismo non è stata esplorata a Cambridge (Mass.) 2006, pp. 27-53. sufficienza. Il radicante potrebbe così costituire uno strumento performante 10. «J’étais assez content d’être un per un’analisi accurata delle pratiche déraciné» [intervista del 1966 con Jean femministe dagli anni Settanta. Antoine], in «Fin», n.13, luglio 2002; cit. in Bernard Marcadé, Marcel Duchamp. La 4. Clement Greenberg, La crisi della pittura vita a credito, Johan & Levi, Milano 2009, da cavalletto, trad. it. di N. Rambaldi, in p. 443. Quaderni diThe Foudantion for Improving Understanding of the Arts, n.2, Jaca Book, 11. Semionauta: da ‘semeion’, ‘segno’, Milano 1988, p. 143. e ‘nautos’, ‘navigazione’. Cfr. Nicolas Bourriaud, Formes de vie, op. cit., e 5. Cfr. Zygmunt Bauman, Vita liquida, trad. Postproduction, trad. it. di G. Romano, it. di M. Cupellaro, Laterza, Roma-Bari Postmedia Books, Milano 2004. 2009. 12.Yves Michaud. [Cfr. in part. L’arte allo 6.Yve-Alain Bois, La leçon de Kahnweiler, stato gassoso, trad. it. di L. Schettino, in «Cahiers du MNAM», n.22, 1987, p. 65. Idea, Roma 2007, N.d.T.] [N.d.T.] 13. Gilles Deleuze e Félix Guattari, 7. Jean-François Lyotard, Il postmoderno Millepiani, trad. it. di G. Passerone, spiegato ai bambini, trad. it. parziale di A. Cooper Castelvecchi, Roma 2003, p. 39. Serra, in «Casabella», n.517, ottobre 1985, p. 44. 14. Ibid., p. 40. 8. Craig Owens, The Allegorical Impulse, in 15. Modo di produzione del quale ho già «October», nn.12 e 13, primavera ed estate stabilito una tipologia in Postproduction, 1980. Poi in BrianWallis (ed.), Art after op. cit. Modernism: Rethinking representation, New Museum of Contemporary Art, New York 1984, pp. 203-235.
Victor Segalen e il creolo del XXI secolo Dopotutto, per quali ragioni la diversità culturale sarebbe preferibile alla condivisione di una cultura unica e comune a tutti i popoli? La globalizzazione, per effetto della potenza economica americana, non ha forse generato una cultura accessibile a tutti, realizzando così il sogno modernista di un’umanità unita? Andy Warhol ha brillantemente riassunto questo sogno: «Il presidente beve Coca-Cola, [...] Liz Taylor beve Coca- Cola e [...] anche tu puoi berla»1. Con la pop art, negli anni Sessanta compare l’immagine dell’individuo seriale, in fase con l’evoluzione della produzione sociale. Gli elementi materiali che compongono il suo ambiente sono oramai prodotti in massa e disponibili su tutta la superficie terrestre. Inseparabile da questo processo di industrializzazione, la pittura astratta del XX secolo si è costituita come una lingua comune, un esperanto che può essere letto nella stessa maniera a New York e a Delhi o Bogotà, riflettendo l’avanzata del «progresso» e un nuovo ambiente produttivo. László Moholy-Nagy fu il primo a realizzare, negli anniTrenta, opere per telefono.Trent’anni dopo l’arte concettuale ha generalizzato questo modo di produzione. LawrenceWeiner, ad esempio, emette proposizioni linguistiche che possono essere materializzate (oppure no) dal loro acquirente, esposte come formule, partiture o ricette. Con una trentina d’anni di scarto questi due artisti lavorano secondo i principi di fabbricazione delle scarpe Nike o della Coca-Cola: le coordinate del lavoro sono razionalizzate e codificate in maniera così precisa che possono essere concretamente fabbricate da chiunque e in qualsiasi punto del globo. il radicante 61
Estetica radicante
Estetica radicante
Precarietà estetica e forme erranti Probabilmente il principale fenomeno estetico del nostro tempo risiede nell’intreccio delle proprietà rispettive dello spazio e del tempo, che trasforma quest’ultimo in un territorio tangibile quanto quello della camera d’albergo in cui mi trovo o della via chiassosa che si estende sotto la mia finestra. Attraverso i nuovi modi di spazializzazione del tempo, l’arte contemporanea produce forme atte a cogliere quest’esperienza del mondo, grazie a pratiche che si potrebbero definire «time specific», in risposta all’arte «site specific» degli anni Sessanta, e con l’introduzione nella composizione delle opere di figure prese a prestito dalla dislocazione spaziale (erranza, tragitti, spedizioni). L’arte odierna sembra così negoziare la creazione di nuove forme di spazio ricorrendo a una geometria della traduzione: la topologia. Questa branca della matematica non si dedica tanto alla quantità ma piuttosto alla qualità degli spazi, al protocollo del loro passaggio da uno stato a un altro. Rinvia al movimento, al dinamismo delle forme, pur designando la realtà come un conglomerato di superfici e oggetti transitori potenzialmente dislocabili. Da questo punto di vista fa lega sia con la traduzione che con la precarietà. Tra i fenomeni sociologici di quest’inizio di XXI secolo, la generalizzazione dell'usa e getta è probabilmente quello che passa più inosservato. Fa addirittura la figura del cliché trito e ritrito, ereditato dalle prime grida d’allarme ecologiste degli anni Sessanta. Resta il fatto che la vita media degli oggetti è sempre più breve, la rotazione commerciale il radicante 81
116 20. Jacques Lacan, I non-zimbelli errano 26. “Conversazione tra Kendell Geers, nicolas bourriaud (Il Seminario XXI, 1973/1974), lezione del Daniel Buren e Nicolas Bourriaud”, trad. 13 novembre 1973. Il testo è consultabile it. di G.P. Castelli, in Kendell Geers [cat.], online all’indirizzo www.gaogoa.free.fr/ Macro-Electa, Roma-Milano 2004, p. 56. seminaires.htm. 27.Tesi che ho sviluppato più 21.Walter Benjamin, L’opera d’arte..., op. ampiamente in Postproduction, op. cit. cit., p. 25. 28. Il termine è mutuato dal lessico di 22.Walter Benjamin, Di alcuni motivi in Félix Guattari. Cfr. Nicolas Bourriaud, Baudelaire, in Id., Angelus Novus, trad. it. Estetica relazionale, trad. it. di M.E. di R. Solmi, Einaudi,Torino 1962, p. 107. Giacomelli, Postmedia Books, Milano 23. Francis Alÿs, Streets and Gallery 2010, pp. 83-98. [N.d.T.] Walls [intervista con Gianni Romano], in 29. Leo Steinberg, Other criteria, Oxford «Flash Art International», n.211, marzo- University Press, Oxford 1972, pp. 82-91. aprile 2000. 30. Seth Price, Dispersion, 2002, 24. Gli esempi si potrebbero moltiplicare. consultabile online all’indirizzo www. Ci limitiamo a citare l’artista turco Can distributedhistory.com/Disperse. Altay, che foto-documenta le sodaglie compressed.pdf.zip. e altri luoghi d’incontro dei teenager. 31. Il riferimento princeps è I giapponesi dell’Atelier BowWow naturalmente La condizione inventariano gli spazi interstiziali postmoderna, trad. it. di C. Formenti, presenti nel tessuto urbano; il gruppo di Feltrinelli, Milano 1981. [N.d.T.] cineasti e artisti Raqs Media Collective, basato a New Delhi, costruisce progetti 32. Gioco di parole intraducibile fra i a lungo termine che coinvolgono diverse significati del verbo ‘passer’ nella sua comunità... forma transitiva e riflessiva. [N.d.T.] 25. Karl Marx, Tesi su Feuerbach, in Friedrich Engels, Ludwig Feuerbach e il punto d’approdo della filosofia classica tedesca, trad. it. di P.Togliatti, Editori Riuniti, Roma 1976, XI tesi. [N.d.T.]
Forme-tragitto C’è una fantasia che non può che supportare tutti coloro che della struttura si vogliono non-zimbelli, ed è questa: la loro vita non è altro che un viaggio. La vita è quella del viator. Sono quelli che, in questo mondo, dicono, sono stranieri1. Jacques Lacan FORMA-TRAGITTO 1: SPEDIZIONI E PARADE Il 9 luglio 1975 la barca a vela di Bas Jan Ader lascia la costa degli Stati Uniti per tentare la traversata dell’Atlantico nell’ambito del suo progetto In Search of the Miraculous. Ma il contatto radio si interrompe tre settimane dopo la partenza. Il 10 aprile 1976 le squadre di soccorso ritrovano soltanto l’imbarcazione, quasi del tutto sommersa. La drammatica scomparsa di uno fra gli artisti più promettenti della sua generazione ricorda l’incidente aereo nel quale un altro grande pioniere, Robert Smithson, era perito tre anni prima. Il loro denominatore comune stava in quello spirito da viaggiatore e avventuriero e in quel gusto per i grandi spazi evidenziati dalle tragiche circostanze della loro scomparsa. Queste due opere capitali trovano tuttavia un’eco inattesa, trent’anni dopo, in quelle di tutti quegli artisti per i quali il viaggio è diventato una forma artistica in sé, o che nelle distese desertiche o nelle no man’s land della società post-industriale trovano superfici di inscrizione ben più esaltanti rispetto a quelle loro offerte dalle gallerie d’arte; una ricerca già testimoniata dalle colossali opere site specific realizzate da Smithson negli anni Sessanta, così come dalle spedizioni di Bas Jan Ader. Oggi il viaggio è così onnipresente nelle opere contemporanee che gli artisti ne prendono in prestito le forme (tragitti, spedizioni, mappe...), l’iconografia (spazi vergini, giungle, deserti...) o i metodi (quelli dell’antropologo, dell’archeologo, dell’esploratore...). Se questo il radicante 117
144 11. Saul Anton, A Thousand Words: 16. Questa citazione, come la seguente, postmedia books Doug Aitken Talks about Electric Earth, in è tratta dal volantino che accompagna «Artforum», n.38, maggio 2000. il film, sul quale è riportato il testo della 12. Johannes Fabian, Time and the Other: voce off. How Anthropology Makes its Objects, 17. Joachim Koester, Lazy Clairvoyants Columbia University Press, NewYork and Future Audiences: Joachim Koester 1983. Cit. in Hal Foster, Il ritorno del in Conversation with Anders Kreuger, in reale, op. cit., p. 194. «Newspaper Jan Mot», n.43-44, agosto 13. Claude Lévi-Strauss, Tristi tropici, 2005. op. cit., p. 74. 18. George Kubler, La forma del tempo, 14. Jorge Luis Borges, Tlön, Uqbar, Orbis trad. it. di G. Casatello, Einaudi,Torino Tertiius, trad. it. di F. Lucentini, in Id., 2002, p. 148. Tutte le opere, Mondadori, Milano 1984, 19.Winfried Georg Sebald, Camposanto, vol. I, p. 630. Carl Hanser Verlag, Munich 2003, p. 14. 15. Mostra realizzata nel quadro di un Cit. in Gloria Origgi, Mémoire narrative, programma intitolato Museum Studies 4, mémoire épisodique: la mémoire selon W. Museum of Philadelphia, aprile-maggio G. Sebald, in «Fabula LHT», n.1, febbraio 1998. 2006, consultabile online all’indirizzo www.fabula.org/lht/1/Origgi.html.
Transfert Effetto di questa cultura della movimentazione (viatorizzazione), l’arte contemporanea considera la traduzione un’operazione privilegiata. Va detto che il modernismo aveva trascurato questa nozione a vantaggio del progetto post-babelico di un universalismo (occidentale) di cui l’astrazione era costituita dall’esperanto. Al contrario, nel nostro mondo in via di globalizzazione, qualunque segno dev’essere tradotto, o traducibile, per esistere realmente, non foss’altro che in quella nuova lingua franca1 che è l’inglese. Ma, al di là di questo imperativo pragmatico, la traduzione si trova al centro di una questione etica ed estetica: si tratta di lottare per l’indeterminazione del codice, di rifiutare i codici sorgente che concedono un’«origine» unica alle opere e ai testi. La traduzione - che collettivizza il senso di un discorso e «mette in cammino» un oggetto di pensiero inserendolo in una catena, diluendo così la sua origine nella molteplicità - costituisce un modo di resistenza contro la formattazione generalizzata e una sorta di guerriglia formale. Il principio della guerriglia consiste nel mantenere le forze combattenti in costante movimento: così evitano di essere individuate e preservano la capacità d’azione. Nel campo culturale si definisce mediante il passaggio dei segni attraverso territori eterogenei e il rifiuto di assegnare la pratica artistica a un campo specifico, identificabile e definitivo. il radicante 145
Sotto la pioggia culturale (Louis Althusser, Marcel Duchamp e l’uso delle forme artistiche) Come apprende concretamente la cultura l’individuo di quest’inizio di XXI secolo? Sotto forma di merci, distribuite da istituzioni e mercato. Egli si muove così all’interno di un’autentica pioggia di forme, immagini, oggetti e discorsi; una pioggia a partire dalla quale si organizzano attività (creatrici) e circolazioni (consumatrici). La produzione culturale costituisce dunque una caduta permanente di oggetti visivi, sonori, scritti, interpretati, di qualità diseguale e con statuti eterogenei, e il lettore- spettatore raccoglie ciò che può coi mezzi di cui dispone, a seconda della sua educazione, del suo bagaglio intellettuale e del suo carattere. Che fare quando si è «presi» sotto questa pioggia? Nel suo saggio sul «materialismo dell’incontro», Louis Althusser utilizza la stessa metafora per descrivere, sulla scia di Democrito ed Epicuro, la struttura atomica della realtà. Ecco le prime righe: Piove. Che questo libro sia dunque innanzitutto un libro sulla semplice pioggia. Malebranche si domandava «perché piove sul mare, sulle grandi strade e sulla sabbia», dato che quest’acqua del cielo che altrove innaffia le coltivazioni (ed è ottimo) non aggiunge niente all’acqua del mare o si perde per le strade e per le sabbie desertiche1. il radicante 159
172 1. Louis Althusser, La corrente sotterranea 6. Ivi. nicolas bourriaud del materialismo dell’incontro, in Id., 7.Trad. it. di V. Verdiani, Feltrinelli, Milano Sul materialismo aleatorio, trad. it. diV. 1998. [N.d.T.] Morfino e L. Pinzolo, Unicopli, Milano 2000, p. 55-56. Questa citazione di 8. Cfr. Guy Debord e Gil Wolman, Mode Althusser apre uno dei suoi testi più d’emploi du détournement, in «Les importanti, scritto intorno al 1984 [in levres nues», n.8, maggio 1956 ; poi in realtà il saggio è datato 1982, N.d.T.]. «Internationale Situationniste», n.1, Un giorno bisognerà esaminare il lavoro giugno 1958. [N.d.T.] dell’autore di Per Marx [trad. it. di M. 9. Jean-François Martos, Rovesciare Turchetto, Mimesis, Milano 2008] al di il mondo. Storia dell’Internazionale là dei cliché legati alla generazione del situazionista, trad. it. di S. Coyaud, maggio ‘68 e al fallimento del «comunismo SugarCo, Milano 1991, p. 23. reale», anche se non è questo il luogo per un’impresa tale. Come rivelano le sue 10. Ibid., p. 24. opere postume - ma come già annunciava la sua incessante ricerca di una filosofia 11. Guy Debord e Gil Wolman, Mode materialista sbarazzatasi della teleologia d’emploi du détournement, op. cit. e del razionalismo hegeliani - Althusser resta anzitutto l’istigatore di un 12. Marcel Duchamp, Scritti, trad. it. di M.R. D’Angelo, Abscondita, Milano 2005, p. 165. [N.d.T.] rinnovamento del nominalismo, illustrato 13. Cfr. Jeremy Rifkin, L’era dell’accesso, dal concetto di «materialismo aleatorio», trad. it. di P. Canton, Mondadori, Milano mentre il suo pensiero si articola intorno 1999. [N.d.T.] a concetti chiave quali la follia, la pratica, 14. Louis Althusser, La corrente l’occasione e l’ideologia. Per un’altra sotterranea..., op. cit., pp. 58-59. lettura del concetto di incontro, cfr. Nicolas Bourriaud, Estetica relazionale, 15. Gilles Deleuze e Claire Parnet, op. cit., cap. L’estetica relazionale e il Conversazioni, trad. it. di G. Comolli e R. materialismo aleatorio, pp. 17-20. Kirchmayr, Ombre Corte,Verona 2006, p. 76. 2. Cfr. Louis Althusser, Ideologia e apparati ideologici di Stato, trad. it. di S. 16.Trad. it. di F. Lucentini, in Jorge Luis Ginzberg, in «Critica marxista», n.5, 1970. Borges, Tutte le opere, Mondadori, Milano 1984, vol. I, pp. 649-658. 3. André Malraux, Picasso. Il cranio di ossidiana, trad. it. di S. D’Alessandro e G. 17. Dramatically different, CNAC, Mariotti, Abscondita, Milano 2001. Grenoble 1999. 4. Sui legami fra readymade e linguaggio 18. Sulla posizione di Michel cinematografico, cfr. Nicolas Bourriaud, Foucault, e più in generale sulle Formes de vie, op. cit., cap. Taylor et le nozioni di congiuntura e attualità, cfr. cinéma. Nicolas Bourriaud, Formes de vie, op. cit, sez. I, cap. 1. 5. Philippe Collin, Marcel Duchamp parle des ready-made à Philippe Collin, L’Échoppe, Paris 1998.
Il collettivismo artistico e la produzione di percorsi Playlist1 non è una mostra tematica; se avesse un tema, sarebbe l’arte contemporanea stessa. Che gli artisti riuniti da questa esposizione presentino dei tratti in comune è innegabile, ma non li si troverà sotto la forma di una tematica, di una tecnica o di una fonte visiva particolare, e ancor meno di un’«identità» condivisa. Gli artisti fabbricano i propri documenti; quanto agli altri, ben che vada sono abili comunicatori della loro «cultura» o dei loro particolarismi sessuali, nazionali o psicologici. No, ciò che permette di aggregare nello stesso luogo artisti che perseguono dei fini e che impiegano dei metodi così eterogenei è il fatto che lavorano a partire da un’intuizione simile dello spazio mentale contemporaneo; che percepiscono la cultura di quest’inizio di XXI secolo come un campo caotico infinito di cui l’artista sarebbe il navigatore per eccellenza.Tutti e tutte misurano a grandi passi il paesaggio scassato del modernismo del secolo scorso, constatano il rilassamento delle tensioni che costituivano la volta della sua architettura, prendono atto della scomparsa delle vecchie figure del sapere. Con mezzi eterogenei tentano di produrre opere che si accordino con questo nuovo ambiente, pur rivelandone le configurazioni e i materiali alle nostre coscienze ancora modellate dall’ordine di ieri. Se non si può schizzare la topologia di questo nuovo paesaggio mentale - che appare come «gassoso» agli occhi del miope -, di contro si conosce la natura delle rovine sulle quali riposa. Dal XVI secolo e dall’avvento dei tempi moderni, la propagazione del sapere e la sua accumulazione imprimono forma e movimento alla cultura. Espansione orizzontale attraverso i viaggi il radicante 173
190 1. Playlist era una mostra allestita al 5. Per un’analisi delle basi materiali di nicolas bourriaud Palais deTokyo di Parigi nel febbraio questo immaginario, cfr. Postproduction, del 2004. Artisti invitati: Jacques André, op. cit. Saâdane Afif, John Armleder, Carol 6. Karl Marx, L’ideologia tedesca, trad. it. Bove, Angela Bulloch, Cercle Ramo di F. Codino, Editori Riuniti, Roma 1969, Nash (collezione Devautour), Clegg cap. III, § 3. & Guttmann, Sam Durant, Pauline Fondevila, Bertrand Lavier, Rémy 7. Marcel Duchamp, Notes, Flammarion, Markowitsch, Bjarne Melgaard, Jonathan Paris 1999, p. 105. Monk, Dave Muller, Bruno Peinado, Richard Prince, Allen Ruppersberg. 8. Marcel Duchamp, Scritti, op. cit., p. 235. Programmazione video (in collaborazione 9. Critical Art Ensemble, Utopian conVincent Honoré): John Baldessari, Plagiarism, Hypertextuality, and Slater Bradley, Susanne Burner, Brice Electronic Cultural Production, in Simon Dellsperger, Christoph Draeger, Kendell Penny (ed.), Critical Issue in Electronic Geers (Red Pilot), Christoph Girardet, Media, SUNY Press, Albany (NY) 1995, Douglas Gordon, Gusztáv Hámos, Pierre p. 105. Il testo è consultabile online Huyghe, Mike Kelley & Paul McCarthy, all’indirizzo www.critical-art.net/books/ Mark Lewis, Christian Marclay, Matthias ted/ted5.pdf. Müller, Stefan Nikolaev, João Onofre, 10. Jean Baudrillard, Per una critica Catherine Sullivan,VibekeTandberg, dell’economia politica del segno, trad. it. SallaTikka. di M. Spinella, Mazzotta, Milano 1974, 2. Nicolas Bourriaud, Postproduction, p. 102. op. cit. pg. 15 11. Ibid., p. 104. 3. Manuel Castells, La nascita della 12. Critical Art Ensemble, Utopian società in rete, trad. it. di L.Turchet, Plagiarism..., op. cit., p. 115 Università Bocconi Editore, Milano 2002, p. 107. 13. Su questa problematica e i suoi sviluppi nell’arte di questi ultimi anni, 4. CharlesTaylor, La politica del ci si può riferire a due miei libri: Formes riconoscimento, trad. it. di G. Rigamonti, de vie, op. cit. (in part. sez. II, cap. 3) ed in Jürgen Habermas e Charles Estetica relazionale, op. cit. Taylor, Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, Feltrinelli, Milano 1998, 14. Jeremy Rifkin, L’era dell’accesso, op. pp. 9-62. cit. 15. Ibid., p. 7.
Post-post o i tempi altermoderni Con una formula tanto lapidaria quanto chiarificatrice, Peter Sloterdijk definisce l’era moderna come retta dal «culto della combustione rapida»: è l’epoca della sovrabbondanza energetica, della crescita permanente e dell’«epopea dei motori»1. Abbiamo realmente lasciato questo mondo? Moderno, postmoderno, altermoderno... Tutti termini che servono anzitutto a periodizzare, cioè in ultima istanza a prendere partito nella Storia, enunciando la nostra appartenenza a questo o a quel racconto della contemporaneità. Dunque, secondo Sloterdijk, oggi saremmo ancora «fanatici dell’esplosione, adoratori della liberazione rapida di una gran quantità d’energia. Credo che gli odierni film d’avventura», prosegue Sloterdijk, «gli action movies, girino tutti intorno a questa seconda immagine primaria della modernità: l’esplosione di un’auto, di un aereo. O, ancora meglio, di un grande serbatoio di benzina, che è l’archetipo del movimento divino della nostra epoca»2. La prima di queste «scene primarie» si svolge nel 1859 in Pennsylvania: il giorno in cui il primo pozzo di petrolio fu eretto in prossimità di Titusville. «In seguito, l’immagine della sorgente zampillante petrolio, che gli specialisti chiamano gusher, è diventata uno degli archetipi non soltanto del sogno americano, ma puramente e semplicemente della way of life moderna alla quale le energie facilmente accessibili hanno aperto la porta»3. Per la cronaca, il 1859 è l’anno in cui Édouard Manet dipinge il radicante 191
204 postmedia books Postproduction Come l'arte riprogramma il mondo Nicolas Bourriaud postmedia books 2004 96 pp. 51 illustrazioni isbn 9788874900169 (ed. cartacea) isbn 9788874900688 (eBook) Nell’epoca dell’informazione immateriale Basti pensare a quanto sia oramai e rizomatica di internet, degli scenari del fondamentale il concetto di postproduzione gusto disegnati dagli esperti di marketing, nella musica e nell’industria cinematografica (e del consumo spettacolare, “gli artisti da qui si può agilmente risalire alla centralità programmano le forme più che comporle”, del montaggio nel cinema dell’avanguardia sostiene il critico e curatore francese Nicolas russa, e ancora al ruolo basilare svolto dal Bourriaud, che nel suo Postproduction ha collage nelle arti visive a partire dagli anni individuato con tempismo il fenomeno. ’10 del XX secolo). Ancor più immediata è L’assunto alla base delle strategie di l’attinenza della questione relazionale in ‘postproduzione’ è che sia impossibile (o qualsivoglia studio a carattere sociologico e impraticabile) produrre alcunché di nuovo, e politologico. Innestati tuttavia nel campo della che generare singolarità nel caos di oggetti, critica d’arte, questi due concetti riescono riferimenti, nomi, che ci circonda voglia dire – grazie ovviamente anche all’arguzia di anzitutto rigenerarne un possibile valore d’uso. Bourriaud – a fungere da sollecitatori, anzi Se la questione artistica fondamentale non è addirittura da parassiti che, con il loro impatto più “che fare di nuovo”, ma “che fare con quel disorganizzante e disorientante, permettono di che abbiamo a disposizione”, i processi di cui riesaminare con un’ottica almeno parzialmente parla Bourriaud designano “una zona di attività” inedita quel mondo dell’arte che può apparire, in cui vengono elaborati protocolli alternativi sotto certi aspetti teorici fondamentali, per rappresentazioni e strutture narrative già piuttosto monolitico dopo l’ultima ondata esistenti: “imparare a servirsi delle forme vuol profondamente rivoluzionaria, quella delle dire anzitutto sapere come farle proprie e “avanguardie storiche”. abitarle”, passando da una cultura del consumo Marco Enrico Giacomelli / D'Ars n.205 / 2011 a una cultura dell’attività, da un atteggiamento passivo a una forma di resistenza basata sulla riattivazione di potenziali negati o marginalizzati. Stefano Chiodi / Alias / agosto 2005
Estetica relazionale Nicolas Bourriaud postmedia books 2010 128 pp. -- 27 illustrazioni isbn 9788874900473 All’inizio degli anni Novanta, una nuova Mi rendo conto che il punto comune tra generazione artistica, con caratteristiche tutti i miei libri è il rimettere in discussione la proprie, si è imposta prepotentemente nei nozione di origine e l’identità. musei e nelle gallerie più importanti del Direi che in Estetica relazionale cerco di mondo. Anche chi non è stato testimone attivo dimostrare che il significato di un’opera può di quel periodo, può constatare che, dopo essere visto non tanto nel lavoro stesso, la grande attenzione che critica e mercato ma anche in quell’avanti e indietro tra chi hanno rivolto alla pittura e alla figurazione osserva e l’opera... in questo percorso tra in senso lato, tipiche degli anni Ottanta, la spettatore e opera... qual è l’origine delle nuova generazione artistica ha bruscamente cose? L’origine è sospesa? ... in Postproduction, cambiato direzione di marcia e spostato mi riferisco molto alla figura del DJ come la propria attenzione dai valori cromatici e modello culturale, qualcuno che utilizza le narrativi – e dalle abilità tecnico-realizzative opere già esistenti per la produzione di nuove legate alla produzione dell’oggetto artistico – concatenazioni. Arriviamo coì al semionauta agli aspetti concettuali, contestuali e, appunto, con l’idea di creare un corso ... che è anche relazionali (usando la felice espressione di una domanda: Qual è l’origine di un brano Bourriaud), diventati elementi generativi delle musicale? Può anche essere un altro pezzo di opere di questi anni. musica , che si , etc , etc ... diluire la domanda In Estetica relazionale, Nicolas Bourriaud ha originale è di salute mentale , è importante ... esaminato tali artisti, i mutamenti che hanno in Radicant sono molto critico rispetto ai temi introdotto nella loro produzione, e ha articolato di origine e identità, io credo nel dinamismo le proprie riflessioni partendo sia dagli aspetti delle persone... espositivi, sia speculativi, le due polarità Intervista con Anne Dubous / Little Heart caratterizzanti l’intera attività del critico francese. Movement / gennaio 2010 Prospettive amalgamate in modo fluido, con l’obiettivo dichiarato di trovare il punto di equilibrio tra piano teorico e curatoriale. Roberto Pinto / introduzione il radicante 205
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