Il panettone di Milano, forse giunto a Vilnius già in epoca rinascimentale, è una solida tradizione gastronomica della pasticceria a lievitazione italiana che si è affermata negli anni in molte parti del mondo, la cui produzione e consumo continua ad essere in forte crescita sia nelle varianti industriali che artigianali, non più solo per le festività natalizie
Nelle settimane precedenti il Natale, in molti supermercati in giro per il mondo potete trovare offerte assai allettanti di panettoni prodotti in Italia o anche altrove che possono essere acquistati per pochi euro. Si tratta forse di un cattivo prodotto, per via del basso prezzo ? Forse no. Tuttavia, è necessario diventare consumatori informati. Come per molti altri prodotti del settore agroalimentare – in particolare quando si tratta di qualcosa che abbia a che fare con l’Italia (una vera “superpotenza” culinaria e gastronomica, imitata praticamente ovunque ) – occorre che il mercato sia trasparente – come impongono una serie di normative europee – e chi compra un panettone possa sceglierlo, con cognizione di causa, sapendo cosa soddisfa il suo portafoglio e cosa porta in bocca e soddisfa il suo palato. Anche se il prezzo non può essere l’unico parametro di scelta, va detto subito e con chiarezza che non tutti i panettoni sono uguali tra loro. Una rapida scorsa agli ingredienti e all’ordine in cui sono elencati (che indica il loro grado di presenza nella ricetta) permette di sapere cosa è stato aggiunto per prolungare apparenza e durata del prodotto, spesso a scapito del sapore e della fragranza. Un panettone a buon prezzo può dichiarare di contenere una buona quantità di ingredienti gustosi, come uva passa sultanina (15,2%), uova di galline allevate a terra (14%), scorza di arancia candita (12%, magari con l’aggiunta di sciroppo di glucosio e fruttosio, oltre che di zucchero), zucchero, lievito madre (10%), farina di grano, burro e sale. Fin qui tutti ingredienti necessari; ma può contenere anche – per allungare appunto gradevolezza visiva e durata – diversi altri ingredienti non altrimenti necessari, in particolare emulsionanti (monogliceridi e digliceridi di acidi grassi), latte scremato in polvere e, soprattutto, aromi (non meglio specificati, dunque non necessariamente naturali). Con il risultato, evidente anche a un palato mediamente sensibile, di avere un sapore meno gradevole rispetto a un panettone che non contenga tali ingredienti. ***** In ogni caso anche il panettone di Milano, forse il dolce italiano a lievitazione più conosciuto al mondo prodotto nella forma che conosciamo da quasi un secolo ma, come vedremo, con una storia alle spalle molto più antica, il dolce al quale tutti sono affezionati, per il suo legame con le feste di Natale, per la semplicità e ricchezza dei suoi ingredienti di base e per la accurata e complessa preparazione che richiede, certamente da parte di un maestro pasticciere provetto (no, decisamente non si tratta di una ricetta per cuochi principianti o alle prime armi !), dimostra come la gastronomia italiana – e le sue tante espressioni regionali, come in questo caso, di un dolce così tipicamente legato alla città di Milano e alla sua regione, la Lombardia - sia una espressione rilevante e di successo dell’identità culturale italiana.
Una identità che è naturalmente basata - per poter essere di successo – sullo scambio costante tra un marcato legame dei prodotti e della loro manipolazione con il territorio e, nello stesso tempo, le influenze reciproche delle tradizioni culinarie con tante regioni del mondo diverse tra loro. Dunque il panettone di Milano, con la sua tipica forma cilindrica, alto e a doppia lievitazione, che tutti sanno essere assai impegnativo nella preparazione, oppure, esistono anche queste alternative, il panettone più basso e largo, di Genova - detto anche pandolce - oppure quello piemontese, decorato e arricchito con una glassa alle nocciole o alle mandorle, che e’ stato creato per la prima volta dalla pasticceria Galup nel 1922 e viene oggi considerato una tipica specialità regionale ? Certo, i panettoni di Genova e Torino sono certamente di assai più semplice preparazione rispetto a quello classico di Milano. Una scelta ardua, non solo per chi vuole prepararli, ma anche per chi vuole soltanto gustarli! In ogni caso il panettone a Natale, di qualunque tipo sia, purché di qualità, è una opzione estremamente popolare, sia in Italia che all’estero, e comunque una scelta che produce felicità a tutti i consumatori per il suo sapore e per la capacità di evocare le festività di Natale alle quali e’ strettamente legato. Anche se i produttori sono convinti che la sua bontà meriti di essere mantenuta disponibile tutto l’anno. ****** Nella ricca tradizione culinaria italiana, che si consolida già a partire dall’alto medioevo, e che affonda solidamente le sue radici nella gastronomia romana, ma ha anche legami con quella germanica, ci sono alcuni punti fermi che orientano e influenzano il gusto della tavola nel mondo. In primo luogo il pane. E quello di farina bianca di frumento, impastata e mescolata insieme ad acqua, sale e lievito, ne è forse la sua espressione più antica nobile. Alla sua base, appunto, la lievitazione dell’impasto di farina, acqua e sale. Il vero segreto del successo del Panettone, come vi dirà ogni maestro pasticcere senza per questo rivelarvi i suoi segreti al riguardo, risiede proprio nella sua lievitazione speciale. Che prevede l’uso della pasta madre e non in una sola ma addirittura in due successive lievitazioni, che se ben eseguite conferiscono all’impasto una straordinaria leggerezza. E l’arte sta proprio nella capacità di far svolgere le due lievitazioni nelle condizioni richieste, curando la temperatura dell’ambiente e la forza che dovrà esercitare sugli ingredienti per permettergli di “alzarsi” dal piano sul quale sono stati impastati. Il pane di farina di frumento è dunque l’alimento di base. Del quale il panettone e’ una versione ricca e straordinaria, originariamente prevista come la versione per le feste. Al semplice pane si aggiunge infatti, in occasione delle feste e, di certo, sulla
tavola dei più benestanti, il gusto del dolce. Un uso molto antico, affermatosi dapprima con l’aggiunta del miele, largamente in uso nell’epoca romana e quindi, in epoca più recente con l’introduzione dello zucchero, prima quello di canna e quindi di barbabietola. Una combinazione di sapori che arricchisce l’impasto del pane e lo rende espressione caratteristica di una cucina più raffinata e ricca (“da signori”, per la festa). La ricetta del panettone parte da qui e – come per altri preparati inglesi (Christmascake o fruit cake) o tedeschi (Christstollen, che si dice originario di Dresda, con frutta candita e mandorle) o i suoi predecessori medioevali (panpepato di Siena, buccellato di Lucca, pan di ramerino/rosmarino - prevede l’aggiunta, nella sua preparazione, di frutta conservata (l’uva passa o sultanina, importata dalla Crimea dai mercanti veneziani e genovesi e che da ciò ha preso il suo nome: Sultania, oggi Sudak, era il porto dove veniva caricata, anche se in seguito e’ stata prodotta anche in Grecia, Turchia, Iran) e della frutta candita (scorze di arancio e cedro): una pratica ancora piu’ antica, che si segnala già in epoca romana come l’accettazione nella cucina di tipiche influenze medio-orientali. E ancora, per ottenere il gusto inconfondibile del panettone, l’aggiunta nell’impasto – per arricchirlo ed aumentarne la compattezza - delle uova fresche di gallina. In quantità tale da far sentire anche il loro sapore. Dunque tutti ingredienti semplici e dai sapori ben riconoscibili. Che, nello stesso tempo, vengono arricchiti dal loro miscelarsi. E che trovano un loro felice compendio, che diviene particolarmente armonico e altamente rappresentativo, appunto nel celebre pane ricco di natale, detto “panaton” o panettone, quello che tutti oggi riconosciamo come uno dei simboli più iconici e facilmente associabili alla gastronomia dolciaria di eccellenza dell’Italia nel mondo intero, in uso durante tutto il periodo delle festività natalizie e tipicamente nelle riunioni di famiglia che tradizionalmente si tengono in tale periodo. Tuttavia il successo del gusto del panettone – e la leggerezza e fragranza del suo ricco impasto – non sarebbe stato possibile senza l’aggiunta agli altri ingredienti del burro di latte vaccino. Un tipico prodotto settentrionale, che si distingue nettamente dall’olio d’oliva mediterraneo, e che entra nella ricetta del panettone come la necessaria componente di grasso da aggiungere all’impasto e che si rivela capace di influenzare a sua volta il gusto del prodotto finale. ******
GLI INGREDIENTI DEL PANETTONE TRADIZIONALE DI MILANO Gli ingredienti della ricetta del panettone tradizionale di Milano sono dunque questi: • farina di frumento di buona qualità • lievito madre (impiegato per una doppia lievitazione) • zucchero semolato (di canna o barbabietola) • uva passa o sultanina • scorze di arancio e cedro candite • uova fresche di gallina • burro di latte vaccino • acqua • sale
La farina bianca di frumento – Come ogni maestro pasticciere sa bene, la scelta di una farina bianca di frumento adatta per la produzione di lievitati e quindi per confezionare un panettone è essenziale. Vi sono delle farine speciali per il panettone: di grano tenero, tipo 00, rinforzata o “di forza” (W 340 P/L 0.50 oppure W 370-390) che assicurano migliori rendimenti nelle due lievitazioni previste. Si tratta di una farina ottenuta dalla miscelazione di grani teneri, naturalmente ricchi di glutine, che nelle lunghe lavorazioni con lievito madre permette di esprime al massimo le sue potenzialità, amalgamandosi con il grasso delle uova e del burro, la frutta passita e candita. La composizione proteica di tali farine garantisce una ottima elasticità agli impasti e una alta estensibilità, che assicura una maggiore tenuta e stabilità rispetto ad altri tipi di farina, permettendo una espansione regolare e senza cedimenti. La farina “di forza” presenta un ottimo sviluppo non solo nella fase di lievitazione ma anche in quella di cottura, dove pure la presenza di elevate quantità di ingredienti pesanti (uva passa, canditi, ecc) richiede prestazioni adeguate. La qualità delle proteine di tale farina è tale da evitare l’effetto di rigidità che viene dato dal glutine, come a volte può avvenire, rendendo l’impasto malleabile ed evitando anche il fenomeno del ritiro del prodotto cotto a poche ore / giorni dalla cottura (un effetto tipico di quelle farine alle quali e’ stato aggiunto del glutine). L’elevato indice di assorbimento di liquidi della farina si accompagna alla grande capacità di trattenere gli stessi all’interno del prodotto finito, anche in fase di cottura e una volta cotto: nel forno il rilascio graduale dell’umidità non si accompagna al fenomeno di “vetrificazione” della pasta – che pure potrebbe verificarsi e, nel tempo, la ritenzione idrica operata dalle proteine della farina, permette di mantenere il prodotto ottenuto con il giusto grado di morbidezza, preservandolo dal rischio di un eccessivo rinsecchimento.
Il lievito madre (o pasta acida) – Nella preparazione del panettone tutte le ricette e l’esperienza dei maestri pasticcieri si concentrano sulla grande attenzione da prestare alle procedure da seguire per rinfrescare più volte il lievito e, soprattutto, assicurarsi la temperatura protetta e controllata e i tempi in cui devono avvenire tali processi. Solo osservando tali veri e propri segreti dell’arte della lievitazione può avere modo di svolgersi quella fermentazione naturale da lievito madre o pasta acida che resta da sempre alla base di ogni buon panettone. Il lievito madre (o pasta acida) è semplicemente una miscela di acqua e farina che, lasciata fermentare nelle condizioni idonee di tempo e temperatura, produce all’interno della massa impastata, sottoposta a una contaminazione spontanea da parte di microrganismi, una crescita della microflora batterica autoctona, composta prevalentemente dallo sviluppo di batteri lattici, ma anche lieviti e acetici) molto variati tra loro: complessivamente sono oltre 300 le specie diverse che possono essere presenti nelle materie prime, e provengono dall'aria, dall'ambiente, dall'operatore. Tali microrganismi sono in competizione nutrizionale tra loro e in presenza di sostanze nutritive, acqua e calore, crescono e si moltiplicano, avviando gli specifici processi metabolici della specie cui appartengono e quindi muoiono.
L'utilizzo nei processi di panificazione di un impasto di acqua e farina sottoposto alla contaminazione spontanea di questi microorganismi che producono la lievitazione ha una tradizione millenaria, che precede anche la tradizione culinaria dell’antica Roma (era già praticata in Egitto nel 3500 AC) e ha permesso di identificare, nel tempo, alcuni ceppi di lieviti naturali maggiormente efficaci nella preparazione dei prodotti della panificazione. È il caso del più noto dei lieviti per la panificazione: detto comunemente \"lievito di birra\", si tratta di un microrganismo naturale (un fungo, il Saccharomyces cerevisiae) che, compresso e prodotto in modo industriale, permette (oltre al processo di vinificazione e, appunto, la fermentazione della birra), aggiungendolo all’impasto di acqua e farina, di ottenerne con rapidità e facilità la lievitazione operando un metabolismo prettamente alcoolico L'impasto di farina e acqua sottoposto alla più lenta e autoctona contaminazione di lieviti, batteri lattici e altri microrganismi è invece conosciuto come “pasta madre” o “lievito madre”, in quanto - se opportunamente alimentato e “rinfrescato” e conservato in un ambiente adatto - continua a riprodursi senza fine. La fermentazione dei batteri lattici (fermentazione lattica omo- o etero- fermentante, in base alle specie contaminanti) è dunque un processo distinto da quella alcoolica tipica del S. cerevisiae. Come prodotti del metabolismo così ottenuto si hanno acido lattico, acido acetico, acqua, anidride carbonica e metaboliti secondari, uniti in una massa acida impropriamente chiamata in gergo tecnico \"lievito\", termine ben lontano dal suo significato microbiologico, per il fatto che contribuisce a \"levare\", \"alzare\" la massa in fermentazione con la produzione di gas: si tratta di un processo fisico-chimico che apporta al prodotto finito, una volta cotto, una serie di aspetti positivi tra cui maggiore digeribilità e conservabilità. La pasta madre artigianale è dunque costituita da una specifica microflora autoctona e selvaggia, non stabile nella quale convivono specie microbiche ogni volta diverse. Una volta ottenuta, deve essere mantenuta \"in vita\" per mezzo dei successivi “rinfreschi”, cioè impasti periodici – ad intervalli di tempo regolati - con determinate quantità di farina e acqua. Solo tale procedura permette ai microorganismi che la compongono di essere costantemente nutriti e quindi posti in condizione di operare il loro metabolismo specifico che permetterà una buona lievitazione. Le peculiari caratteristiche microbiologiche, organolettiche e fermentative della pasta madre variano non solo in relazione all'ambiente in cui sono mantenute e rinfrescate, ma anche all'area geografica di provenienza, al meccanismo di produzione, e a fattori casuali di difficile controllo. La microflora interna e gli equilibri che si instaurano sono molto instabili e soggetti a diversi fattori di crescita (pH, temperatura, sostanze nutritive, ossigeno, acqua, competizione nutrizionale, specie microbiche presenti, ecc.) che si modificano a ogni rinfresco.
Si tende a fare una certa confusione tra pasta madre e di riporto. In realtà la pasta madre, o lievito di pasta acida, sono la stessa cosa. La pasta di riporto, che nell’Italia del sud è chiamata anche \"crescente\" o \"criscito\" è quel panetto di impasto che, tolto da quello della lavorazione precedente completa di tutti gli ingredienti, sale e lievito di birra S. cerevisiae compreso, viene utilizzato tutto negli impasti successivi. A differenza del lievito di birra, la pasta madre ospita, oltre ai lieviti di cui il genere dominante è il Saccharomyces, anche diverse specie di batteri lattici del genere Lactobacillus. La coltura simbiotica di lieviti e lattobacilli della pasta madre porta a una fermentazione acida che e’ nello stesso tempo sia lattica che alcoolica. L'ambiente acido riduce la possibilità di contaminazione da parte di altre specie batteriche non acidofile. L'anidride carbonica prodotta induce la formazione delle caratteristiche \"bolle\" che caratterizzano l'alveolatura del pane. Durante la cottura evaporano tutte le sostanze volatili prodotte dai metabolismi e una parte dell'acqua contenuta nell'impasto. A differenza di quella indotta dal lievito di birra, la fermentazione acida è molto più lenta e richiede una lavorazione più complessa, che permette di ottenere alcuni vantaggi ma può rappresentare uno svantaggio maggiore dell'utilizzo della pasta madre a livello industriale per la maggiore difficoltà di gestione e appunto i lunghi tempi di lievitazione richiesti. Sono però numerose le proprietà positive riconosciute alla pasta acida naturale: per effetto dei tempi di lavorazione più lunghi, maggiore digeribilità delle proteine (per la proteolisi operata dai batteri lattici); migliore lavorabilità dell'impasto; nella cottura la colorazione della crosta sarà più scura (gli aminoacidi liberi reagiscono con gli zuccheri nella c.d. “reazione di Maillard”); l’aroma ottenuto sarà più intenso; sapore e fragranza, che dipendono soprattutto dal tipo di fermentazione, dalla presenza di acido lattico e acetico e anche dai ceppi di microorganismi che compongono la madre, saranno particolari e maggiormente riconoscibili; una maggiore biodisponibilità dei minerali (in quanto le fitasi batteriche liberano i sali chelati all'acido fitico). Inoltre il panettone e ogni altro prodotto di lievitazione ottenuto con la pasta madre si conserva naturalmente più a lungo rispetto a quello ottenuto con il lievito di birra, senza bisogno di alcun tipo di additivi.
Impasto acido spontaneo ottenuto da farina e acqua, rinfrescato per tre giorni o più La preparazione classica della madre comincia da un impasto acido spontaneo che, per opera dei microrganismi naturalmente presenti nella farina e nell'ambiente, innesca la fermentazione e la conseguente lievitazione in un normale impasto di farina e acqua lasciato acidificare spontaneamente per un tempo più o meno lungo. Per accelerare la fermentazione si possono aggiungere all'impasto anche altri ingredienti: lieviti, batteri lattici esogeni e zuccheri, frutta, yogurt, crusca, miele, etc. In particolare sulla superficie di molti frutti si forma la pruina che contiene, tra l'altro, il Saccharomyces cerevisiae. Questo metodo dà origine a uno sviluppo caotico di varie specie microbiche, anche patogene per l'uomo, che vengono spontaneamente selezionate con l'aumentare dell'acidità dell'impasto e la diminuzione del contenuto in ossigeno e zuccheri. Di norma vengono inattivati gli organismi indesiderati, sviluppati lieviti e batteri lattici, ma la microflora variabile spesso non permette di conservare a lungo le sue caratteristiche. Attraverso opportune lavorazioni, ovvero successivi rimpasti con altra acqua e farina in dosi adeguate alle caratteristiche della pasta, l'impasto acido spontaneo può divenire una pasta madre. Altro metodo di produzione della pasta acida è quello dell'innesco con colture starter, ossia microorganismi selezionati provenienti dai laboratori o da impasti acidi stabili. Si trovano in commercio nelle forme liquida, congelata, essiccata o liofilizzata, ma non sempre il loro uso è garanzia di specificità e di vitalità cellulare. In alternativa è possibile procurarsi la pasta madre chiedendone una parte a chi già la possiede o a un panificatore artigiano.
Rispetto agli altri tipi di lieviti (lievito di birra) quello madre è più digeribile e più facilmente assimilabile, rende maggiormente disponibili i sali minerali e le proteine presenti nell’impasto, non procura fastidiosi gonfiori addominali, è un valido riequilibratore della flora batterica intestinale, arricchisce gli alimenti di batteri lattici utili e conferisce un indice glicemico minore (anche utilizzando farine non integrali).
Lo zucchero semolato – passaggio dal miele allo zucchero, prima di canna e quindi di barbabietola Mentre in passato lo zucchero di canna, pur conosciuto (lo descrive Alessandro Magno, veniva ottenuto in India e Persia), era considerato solo come un componente medicinale, gli Arabi ne introducono la coltivazione in Sicilia (la canna persiana) e Spagna e i mercanti genovesi e venziani lo importano come una spezia (sale arabo) fin dai tempi delle crociate, cosicché inizia a essere utilizzato come bene di lusso nelle cucine dei nobili e benestanti. Introdotto nei Caraibi con piantagioni stabilite fin dai tempi di Cristoforo Colombo, ne nacque un fiorente traffico di importazione che rese il prodotto, per quanto di lusso, più comune. Questo diede una spinta notevole all'arte culinaria, permettendo la nascita della pasticceria europea come arte autonoma. Diventa progressivamente una merce più popolare nel ‘700, anche grazie al connubio con cacao, latte e caffè. Solo a partire dall’epoca napoleonica viene messo a punto un procedimento industriale per ricavarlo dalle barbabietole.
Uva passa o sultanina Uva bianca della specie Vitis vinifera (Famiglia Vitacee) di origini molto antiche: pare originaria dall’Asia sudoccidentale, da dove si sarebbe poi diffusa nel Mediterraneo orientale: Grecia, Turchia e Iran. Smirne, Corinto e Malaga sono i luoghi più noti per la sua produzione e commercio. Verosimilmente prende il nome dalla città di Sultania (o Soldania, oggi Sudak), nella penisola della Crimea, antico porto commerciale veneziano e genovese. Nel XVI secolo Venezia rivaleggiò con la Gran Bretagna nel commercio dell’uva sultanina, di cui era grande consumatrice. Attualmente Turchia e Australia ne sono i maggiori produttori. La sultanina bianca, caratterizzata da acini molto dolci, senza semi e dalla buccia sottile, è da sempre destinata alla produzione di uva passa (o uvetta), ossia quella essiccata ottenuta per disidratazione. Ma non tutta l’uvetta è sultanina. Talvolta si tratta invece di uva Zibibbo, anch’essa bianca ma con i semi, oppure di uva Corinto nera, caratterizzata da acini del tutto privi di semi, generalmente piccoli e color violaceo scuro. Invece quella dagli acini più grandi e scuri è, di solito, l’uva spagnola di Malaga. L'essiccazione sfrutta il calore per ridurre il tasso di umidità presente negli alimenti e può essere fatta in vari modi. Quello più antico consiste nell‘esporre il frutto all'aria e al sole per settimane o mesi e viene usato, parzialmente, ancora oggi per l‘uva sultanina. L’uvetta così ottenuta si riconosce perché è più scura e costa di più. Il prezzo dipende anche dal fatto che dietro un kg di uvetta ci sono circa 4 kg di uva fresca. La tecnica moderna invece, immerge i grappoli appena colti in una soluzione di acqua e carbonato di potassio. Così la disidratazione è più rapida. Poi l’uva viene passata in congelatore, per eliminare gli eventuali parassiti, lavata ed essiccata in ambienti riscaldati artificialmente con aria calda o in appositi forni (oppure sottoposta a una blanda pastorizzazione). Segue un bagno d‘olio, necessario per far sì che gli acini non si appicchino tra di loro, e infine il confezionamento. Quello della conservazione è uno dei maggiori problemi della frutta essiccata e quindi anche dell‘uvetta. Così spesso si usano dei conservanti (di solito l‘anidride solforosa o i suoi sali), che impediscono lo sviluppo delle muffe e neutralizzano gli enzimi che farebbero marcire la frutta e ne deteriorerebbero il colore. Questi conservanti, indicati in etichetta con sigle che vanno da E220 a E227 e per cui la legge ha stabilito i valori massimi utilizzabili (2000 mg/kg), a dosi moderate non creano problemi. L’importante è non superare il limite quotidiano di 0,7 mg per Kg di peso corporeo perché interferiscono con il metabolismo di alcuni amminoacidi e possono provocare irritazione gastrica, emicranie o crisi respiratorie in persone particolarmente sensibili. Un buon consiglio è preferire i prodotti senza conservanti e quelli biologici, in cui non si usa aggiungere anidride solforosa. Prima di consumare l’uvetta meglio sciacquarla e lasciarla in acqua: non solo per farla reidratare, ma anche per farle perdere un po’ di quegli olii utilizzati per garantirne la conservazione.
Frutta candita (arancio, cedro) Necessaria nel Panettone per arricchire l’impasto e accrescere il profumo. Lo zucchero che rilascia svolge un’azione naturale di conservante del panettone per almeno 15 giorni. La canditura della frutta (o altre piante) è infatti nata come tecnica di conservazione che permette di mantenerla a lungo, a volte anche per mesi. Già conosciuta in Cina e Mesopotamia mediante immersione in uno sciroppo di zucchero (inizialmente di palma o miele). Spesso era l'unico metodo di conservazione conosciuto: gli antichi Romani mantenevano non solo la frutta, ma perfino il pesce immergendolo nel miele ! I precursori della canditura sono gli arabi, che la introdussero in Sicilia, per il trattamento degli agrumi, tra il IX e XII sec. La stessa parola \"candire\" deriva dall'arabo qandat, a sua volta trascrizione dal sanscrito khandakah (\"zucchero\"). Grazie ai mercanti veneziani prima e genovesi poi, la frutta candita venne apprezzata in Occidente come prodotto di importazione dal Mediterraneo. I primi documenti che testimoniano l'uso di frutta candita in Europa risalgono al Cinquecento. All'epoca, i canditi venivano assimilati alle spezie. In Italia, diventano un ingrediente cardine di alcuni dei dolci più famosi della tradizione culinaria: tra questi, appiunto, il panettone milanese ma anche la celebre cassata siciliana. Nel processo di canditura, si riduce il contenuto di acqua con un procedimento di osmosi, mentre il contenuto in zucchero viene elevato e portato a oltre il 70%. Nel processo, le qualità nutrizionali della frutta candita possono andare quasi del tutto perdute: si conservano solo alcune vitamine; la conservazione degli aromi dipende invece dal tipo di procedura seguita e dall'abilità del maestro pasticcere: nelle lavorazioni industriali possono sparire quasi del tutto, mentre possono essere conservati e addensati in un concentrato se l'intero ciclo di lavorazione viene effettuato a freddo, senza snaturare la frutta candita per effetto di riscaldamento. Normalmente, per la canditura si impiega zucchero di barbabietola. Frutta candita particolarmente pregiata si ottiene invece mediante canditura nel miele o nel mosto cotto (come e’ il caso della saba o sapa in Emilia-Romagna). Per ottenere la frutta candita la si ricopre di sciroppo, cosicché avvenga lo scambio osmotico, che può durare da qualche giorno a una settimana a seconda del frutto. Si scola poi lo sciroppo, che viene fatto bollire con l’aggiunta di zucchero e versato nuovamente sulla frutta in una operazione detta “giulebbatura”, dall’arabo “giuleb\", (acqua di rose), per le somiglianze del procedimento di distillazione dell’acqua aromatica che può essere ripetuta diverse volte, fino ad ottenere il grado di canditura desiderato.
Uova fresche di galline allevate a terra - le proteine contenute nei tuorli d’uovo permettono di amalgamare il composto e di definire così la struttura finale del dolce. Così centrale il ruolo dei tuorli d’uovo nel panettone che il suo utilizzo è tutelato e regolamentato dal disciplinare che regola la produzione del panettone in Italia (dal 22 luglio 2005) e richiede l’uso di “uova di gallina di categoria «A» o tuorlo d’uovo, o entrambi, in quantità tali da garantire non meno del quattro per cento in tuorlo”.
Burro Di buona qualità, di centrifuga, chiarificato. Il burro utilizzato per la preparazione del panettone deve essere morbidissimo e “a pomata” ma non liquido, caldo o mezzo morbido o peggio scaldato a volo al microonde o avvicinato estemporaneamente a fonti di calore (altrimenti il panettone non si incorda).
Ludovico Sforza, detto “il moro”, zio di Bona Sforza (1452-1508)
Bona Sforza (1494 – 1557)
Milano, cortile del castello sforzesco La storia del panettone e le sue leggende: da Milano a Vilnius ? Il Panettone è certamente uno dei principali e più conosciuti dolci a lievitazione della gastronomia italiana. Molto popolare e diffuso sia in tutta Italia che in molti paesi all’estero, dove viene esportato in grandi quantità, e’ sempre più conosciuto e in un numero crescente di casi viene prodotto in loco ed e’ consumato non più esclusivamente per Natale e durante le festività di fine anno come dolce stagionale, legato esclusivamente a questo periodo dell’anno ma anche lungo tutto l’anno. E’ anche una delle più tradizionali espressioni culinarie tipiche della città di Milano - Panettone di Milano - ed è stato reso celebre nel mondo per il grande successo delle sue produzioni commerciali, principalmente Alemagna e Motta ma anche altri produttori, a partire dagli anni ’20 del secolo scorso. Già Pellegrino Artusi, nel suo celebre libro di ricette “La scienza in cucina e l’arte di mangiare bene” pubblicato per la prima volta nel 1891 e che ha creato una delle prime visioni coerenti della gastronomia italiana, unendo in una opera unica le ricette provenienti dalle diverse tradizioni regionali, ne da la ricetta casalinga, contrapponendola a quella commerciale, già allora in uso.
Il panettone artigianale resta un prodotto di nicchia, di qualità più elevata, che riscontra considerevole successo. A conferma della ricchezza e della varietà dell’offerta gastronomica italiana una diversa tradizione e’ quella che accompagna il panettone basso o pandolce di Genova. Come molte pietanze italiane, anche il panettone trae origine dalla tradizione culinaria ed è stato solo in seguito identificato con un nome caratteristico, che a sua volta ha contribuito ad accrescerne la notorietà e popolarità. Sembra che il Panettone abbia avuto le sue origini nelle cucine della casa Sforza a Milano. Tutti sanno che Bona Sforza, moglie italiana di Sigismondo il Vecchio, portò con sé dall’Italia in Lituania molti artisti, artigiani e naturalmente anche cuochi. E con essi arrivarono a Vilnius molte ispirazioni ed idee, incluse – perché no - delle ispirazioni gastronomiche e delle ricette. E forse, anche se non e’ certamente provato, e’ possibile che i cuochi della aristocratica signora appartenente alla famiglia milanese degli Sforza possano aver portato con loro e realizzato anche la ricetta del panettone, che secondo la tradizione sarebbe stato “inventato” nelle cucine di suo prozio, Ludovico il Moro, e potrebbero dunque averlo cucinato e servito come dessert di Natale ai banchetti organizzati nel palazzo granducale di Vilnius. La storia non ce lo ha tramandato e dunque non lo sapremo mai di sicuro. Tuttavia è una ipotesi certamente plausibile. ******* Secondo una delle spiegazioni sull’origine del nome di questo popolare dolce, il panaton, pane di Natale, un pane arricchito che fin dal Medioevo veniva preparato nelle case anche popolari e non solo dell’aristocrazia per le festività e in occasioni speciali, e successivamente divenuto uno fra i dolci più riconosciuti come caratteristici della tradizione gastronomica italiana nel mondo. Antonio (o Toni) sarebbe stato un cuoco del signore di Milano Ludovico Sforza il Moro e lo avrebbe prodotto lavorando a più riprese un panetto di lievito madre, rendendolo particolarmente soffice, aggiungendo farina, uova, zucchero, uvetta e canditi, fino ad ottenere un impasto molto lievitato così gustoso e tanto apprezzato nei banchetti ducali che Ludovico il Moro avrebbe deciso di riconoscerne il merito e di intitolare il prodotto delle sue cucine al creatore Toni chiamandolo appunto Pan de Ton, panetton. Diversi altri aneddoti accompagnano l’origine del panettone e del suo nome: suor Ughetta, Ughetto, ecc. e seppure più leggenda che realtà, confermano il legame della città di Milano con la sua tradizione culinaria e gastronomica.
A inventare la ricetta del panettone avrebbe potuto essere stato anche un altro milanese, anch’egli della corte di Ludovico il Moro, Ughetto degli Atellani, di cui era il falconiere, il quale, per conquistare la figlia del fornaio, di nome Algisa, restando in incognito poiché il suo rango non glielo consentiva, si sarebbe fatto assumere come garzone di bottega, e per risollevare gli affari della bottega che non andavano bene, avrebbe provato a impastare questo pane dolce che ebbe un grande successo. *****
La produzione del panettone Negli anni venti due pasticcerie milanesi, Angelo Motta e Alemagna, decisero di modificare la ricetta e le forme tradizionali, iniziando a proporre un panettone più alto e più soffice, ottenuto versando l’impasto in una guaina di cartone, la guepiere, che lo sostenesse durante la cottura e gli impedisse di bruciare. Vedendo che l'impasto in cottura si \"sedeva\" allargandosi, inventò una fasciatura di carta a corona. Una carta- paglia - sostanzialmente rimasta tale anche nel nuovo millennio - che inguainava il panettone dalla lievitazione sino alla vendita, consentendo uno slancio verticale più accentuato. Il successo fu tale che le botteghe dei due pasticceri si ampliarono e si moltiplicarono fino all’apertura di due stabilimenti, dove i dolci venivano prodotti lungo una catena di montaggio e una produzione industriale destinata sia al mercato nazionale che all’esportazione. I prezzi scesero e tante famiglie abbandonarono la preparazione domestica per comprare il panettone già pronto. Italo Balbo, in occasione della famosa trasvolata del 1933 con la quale attraversò l’oceano Atlantico raggiungendo New York imbarcò su uno dei suoi idrovolanti un panettone Motta da dieci chili avvolto in un tricolore. Alla fine degli anni cinquanta i loghi della Motta e dell’Alemagna divennero uno dei simboli del boom economico. Il panettone non era più soltanto un dolce ma anche un articolo da regalo, da offrire in eleganti scatole di latta assieme a vini, spumanti, cioccolata e specialità gastronomiche. Nelle scatole più ricche potevano trovare posto anche altri dolci tradizionali, come il torrone o il panforte, ma con un ruolo secondario. Era il segno che il tipico prodotto milanese era ormai diventato il dolce natalizio tipico di tutti gli italiani. In seguito la produzione di panettoni sia in Italia che all’estero è diventata assai ampia e diversificata. Alla ricetta tradizionale di Milano, anche se viene prodotta altrove, se ne sono aggiunte molte altre, con varianti e modifiche praticamente senza fine. Oggi è praticamente impossibile contare tutte le versioni in cui viene offerto il panettone: riempito con ogni genere di crema, glassato, impastato con latte di soia per andare incontro ai vegani, farcito di caviale o ricoperto di scaglie d’oro o d’argento. Un arricchimento del gusto che non sempre si mantiene in linea con il sapore e la qualita’ del procedimento originale. Ed è per porre un freno a questo ampliamento della gamma dei panettoni che la Camera di Commercio di Milano nel 2003 ha registrato il marchio del Panettone Tipico della Tradizione Artigiana Milanese, precisando ingredienti e sistema di preparazione in un Disciplinare di produzione approvato da un Comitato Tecnico dei Maestri Pasticceri Milanesi composto da rappresentanti di Associazioni di categoria del settore e da un rappresentante dei consumatori.
Lorenzo Bellotto, il castello sforzesco di Milano La gamma può essere distinta tra panettoni industriali, disponibili in maggiori quantità e a prezzi molto più contenuti e panettoni artigianali, che per loro stessa natura implicano produzioni assai più contenute e prezzi più elevati. Il mercato delle produzioni artigianali, in forte crescita, oggi vale quanto la produzione industriale. La definizione di Panettone artigianale dovrebbe fare riferimento alla produzione da parte di un artigiano, ovvero di un piccolo imprenditore che conduce personalmente e professionalmente la propria azienda, svolgendo in misura prevalente in prima persona il proprio lavoro, anche manuale, nel processo produttivo. Un artigiano non produce quindi in serie in modo automatizzato ma dovrebbe assicurare una lavorazione manuale condotta con un numero massimo di 22 dipendenti. I panettoni presenti sul mercato prodotti in centinaia o migliaia di pezzi sono sicuramente artigianali ma non necessariamente di qualità. Quando la produzione arriva a decine di migliaia di panettoni (la ditta Bauli per esempio produce più di otto milioni di panettoni), la dicitura di produzione artigianale risulta inappropriata se non ingannevole. Secondo una circolare ministeriale del 2003 diciture come “produzione artigianale” non garantiscono qualità organolettiche, nutritive o sanitarie superiore; e “lavorato a mano” non aumenta la qualità del prodotto anche se può fornire
indicazioni sul metodo di produzione, laddove si possa dimostrare l’esecuzione manuale di tutte le fasi del processo produttivo. Il panettone è dunque artigianale se viene manipolato, ma questo non necessariamente avviene per ogni singolo pezzo. Nel già citato disciplinare del 2003 della Camera di Commercio di Milano che ha registrato come proprio marchio il Panettone Tipico della Tradizione Artigiana Milanese si precisa ciò ciò che permette di certificare il panettone come prodotto in modo artigianale e si limita a non oltre trenta giorni il termine massimo entro il quale può essere venduto dalla data di produzione, perché privo di conservanti. Oltre quelli originali, non è consentito l’uso di alcun altro ingrediente, seppur innocuo, come per esempio: lievito di birra (che altera i procedimenti di lievitazione), amido, grassi vegetali (ad esclusione del burro di cacao), siero di latte e derivati, lecitina di soia, emulsionanti, coloranti, aromi artificiali, conservanti (acido sorbico e sorbato di potassio). Esclusi anche i mix di farina, semilavorati, mono e digliceridi e canditi con anidride solforosa, che sono invece permessi anche in molti concorsi. I panettoni commerciali per poter costare meno e avere durata maggiore agli ingredienti di base aggiungono sciroppi di zucchero invertito, di glucosio o di glucosio-fruttosio, mono e digliceridi degli acidi grassi, acido sorbico. Le scorze di agrumi candite possono contenere, oltre allo zucchero, altri ingredienti quali sciroppo di glucosio-fruttosio, acido citrico come acidificante, anidride solforosa come conservante/antiossidante Un decreto ministeriale del 2005 che regola la qualità della produzione del panettone in Italia evita che si trovino altri ingredienti di minore qualità, quali grassi vegetali idrogenati, margarina, aromi artificiali e altri ingredienti che sono invece ampiamente utilizzati dall’industria dolciaria in altri prodotti. Lievito madre e uova fresche, oltre che una lavorazione a due lievitazioni sono parte del disciplinare di legge e indispensabili per poter usare il nome di Panettone. Le uova e il burro possono essere congelati, il latte Uht, il lievito madre in polvere, i canditi fatti con lo sciroppo di glucosi. La qualità delle uvette e della farina poi può essere variabile. I panettoni definibili tali, artigianali o industriali, sono già dei buoni prodotti, ma è la materia prima e la lavorazione utilizzata che fanno la differenza. Emulsionanti o conservanti come acido sorbico e sorbato di potassio sono ammessi dal disciplinare e sebbene non vadano demonizzati indicano che il prodotto ha degli additivi finalizzati ad allungarne la scadenza. Gli aromi, naturali ovviamente, servono per dare bel profumo anche in mancanza di lavorazioni lunghe e dispendiose come le paste di canditi, gli infusi di scorze di agrumi, le vere bacche di vaniglia (costosissime). Dietro ad aromi e conservanti si nascondono spesso i famosi “semilavorati”, ossia dei mix di farine e lievito madre essiccato che facilitano la vita a chi è di poca esperienza o vuole risparmiare tempo – sono diffusissimi, spesso addirittura sponsor dei concorsi di settore.
Sciroppi di zucchero invertito, di glucosio, di glucosio-fruttosio Mentre in passato per dolcificare si utilizzavano prima il miele e quindi lo zucchero di canna, a quest’ultimo si è affiancato lo zucchero di barbabietola, meno prezioso di quello di canna. Più di recente nelle preparazioni industriali sono stati introdotti degli sciroppi che a poco a poco stanno rimpiazzando lo zucchero: lo sciroppo di zucchero invertito, che si ottiene scindendo lo zucchero (il saccarosio) nei suoi due componenti, il glucosio e il fruttosio, mediante un enzima (l’invertasi) estratto dal lievito. Poiché il fruttosio ha un potere dolcificante più alto del saccarosio, questo procedimento permette di risparmiare sui costi di produzione usando una minore quantità di zucchero; Gli sciroppi di glucosio e di glucosio-fruttosio si ottengono per trasformazione dell’amido (di norma quello di mais) in glucosio o in glucosio e fruttosio mediante enzimi estratti da batteri e funghi. Anche in questo caso si tratta di dolcificanti il cui costo è inferiore a quello dello zucchero. Sul fruttosio pende il sospetto che faccia aumentare il livello di trigliceridi nel sangue e il glucosio eleva la glicemia più rapidamente del saccarosio. Emulsionanti – I mono e digliceridi degli acidi grassi sono un additivo (codice E 471), ricavato da grassi animali e/o vegetali, utilizzato come emulsionante nei panettoni industriali per rendere omogenea e stabile nel tempo la miscela tra acqua e grassi (delle uova e del burro); senza di esso tali due componenti - acqua e grassi - si separerebbero molto più rapidamente, compromettendo aspetto e gusto del panettone. Migliore emulsionante sarebbe la lecitina (codice E 322), soprattutto se estratta dall’uovo. Nel panettone di buona qualità non occorrono emulsionanti aggiunti giacché le lecitine presenti naturalmente nelle uova utilizzate come ingredienti gia’ svolgono tale funzione. La normativa alimentare non prevede limiti per gli emulsionanti (possono arrivare anche oltre i 10 grammi per chilogrammo di prodotto) tuttavia in tali casi il sapore del panettone tende ad essere grassoso e amarognolo e una volta ingerito si converte in trigliceridi. Gli emulsionanti garantiscono insomma una migliore conservazione del prodotto con l’aggiunta di additivi naturali. Un panettone artigianale, senza tali aggiunte, può invece durare al massimo 40 giorni, entro 30 assicura la resa migliore. Se invece dura un paio di mesi o da dicembre fino a marzo, allora occorre verificarne gli ingredienti. Acido sorbico - per la sua attività antimicrobica e’ un conservante (codice E 200). Si ricavava dalle sorbe acerbe, oggi per sintesi in laboratorio. Può dare disturbi di natura allergica o di intolleranza. Nelle prove su cavie farebbe aumentare il colesterolo. Aromi - vengono aggiunti per sopperire ad una deficienza di fragranza e sapore dovuta a scarsa quantità o cattiva qualità degli ingredienti. Se non espressamente specificato come “aroma naturale”, si tratta di un additivo artificiale.
Gli ingredienti vengono sempre elencati in ordine decrescente per quantità impiegata: pertanto se gli emulsionanti sono posizionati più verso la fine dell’elenco, la quantità presente sarà minore. Al contrario, il burro, alimento pregiato, più è posizionato in alto nell’elenco e maggiore sarà la quantità utilizzata. *****
Panettoni e prodotti di pasticceria creano un giro d'affari annuo per l'Italia che nel 2018 ha raggiunto il valore di 1,3 mld di euro (e +12% nei primi otto mesi del 2019); mercato nazionale 217 mil euro; export principalmente verso FR, GER e USA. 40.483 le imprese attive nella produzione e commercio di dolci e prodotti da forno in Italia, stabile in cinque anni (Napoli 2.447 imprese dolciarie, Roma 1.875, Milano con 1.844): un comparto che occupa circa 167 mila addetti. Delle 29 mila tonnellate di panettone prodotte in Italia, l’80% riguarda panettoni distribuiti nel canale della Grande Distribuzione. La produzione di panettoni artigianali oggi corrisponde a un mercato che vale ben 107 milioni di euro (dei 217 milioni complessivi). Un produttore della California, dopo aver fatto pratica con il maestro pasticcere Iginio Massari, vende i suoi panettoni anche in Europa; il principale produttore al mondo e’ Bauducco, un brasiliano di origine italiana, nipote di un panettiere emigrato da Torino nel 1948, che possiede 6 fabbriche di panettoni negli Stati Uniti e ne produce 200 mila tonnellate all’anno; il secondo è la d’Onofrio: il fondatore Antonio D’Onofrio lasciò la provincia di Caserta alla fine del XIX secolo per stabilirsi in Peru’ dove ora l’omonima azienda e’ affermata nell’industria dolciaria e la cui principale specialità sono appunto i panettoni. E’ allo studio la possibilità di creare una denominazione di origine protetta.
Le ricette del panettone La rete internet offre una ampia gamma di ricette disponibili in tutte le lingue, anche in video. La difficoltà e la lunga durata della preparazione restano tuttavia invariate. Tra le ricette più rilevanti ci sono quelle di Pellegrino Artusi, della Rivista La cucina italiana e il celebre libro di ricette Il Cucchiaio d’argento. Pellegrino Artusi nel suo “L’arte di mangiar bene” dedica al panettone la ricetta della sua stessa cuoca. Ecco i link per quelle del Cucchiaio d’argento www.cucchiaio.it/ricetta/ricetta-panettone/ e de La cucina italiana www.lacucinaitaliana.it/tutorial/le-tecniche/come-preparare-il- panettone/.
I maestri pasticcieri L’Accademia Maestri Pasticceri Italiani (AMPI) riunisce molte delle eccellenze del settore e considera il panettone come una delle principali specialita’ con le quali misurarsi. A livello internazionale vi e’ poi l’ambito riconoscimento della “Coupe du monde de la patisserie”, che ogni anno svela nuovi talenti. In Italia il Maestro pasticciere Achille Zoia viene ritenuto il “Padre” del Panettone moderno e la stampa specializzata si riferisce a Iginio Massari come ”ll Maestro dei Maestri”. Si possono pero’ citare molti maestri pasticceri che preparano panettoni straordinari, non piu’ solo a Milano ma nei loro laboratori diffusi in tutte le regioni del paese. Tra questi Davide Comaschi, Gino Fabbri, Vittorio Santoro, Pierpaolo Magni, Francisco Torreblanca e i Campioni del Mondo di pasticceria Luigi Biasetto, Fabrizio Donatone, Francesco Boccia. Altri nomi da menzionare quelli di Marco Antoniazzi, Francesco Borioli, Davide Comaschi, Salvatore De Riso, Giancarlo De Rosa, Denis Dianin, Salvatore Gabbiano, Dario Loison, Pietro Macellaro, Pasquale Marigliano, Alfonso Pepe, Marco Rinella, Paolo Sacchetti, Vincenzo Tiri.
I migliori panettoni Ogni anno si svolgono numerose agguerrite competizioni tra i maestri pasticcieri più qualificati per potersi aggiudicare l’ambito riconoscimento del panettone dell’anno. I criteri per riconoscere un buon panettone comprendono consistenza, colore, struttura della crosta, trama, idratazione e profumo ma sono soltanto alcuni dei parametri da prendere in considerazione per una analisi sensoriale corretta. Per giudicare con competenza un lievitato perfetto, identificando le caratteristiche organolettiche e considerando le molteplici variabili riferite a una valutazione visiva, tattile, olfattiva, gustativa e infine esperienziale, per poter definire “il” panettone di qualità sono state identificati una serie di parametri: aspetto, finitura e pezzatura; un assaggio di panettone comprende una fetta intera, che ha parti e consistenze diverse, e non soltanto il primo morso. La qualità di un panettone è data dalla corrispondenza tra le varie caratteristiche. Quando ci troviamo in mano una fetta soffice, ben idratata ma non umida, dal buon profumo, con i canditi a pezzi, che si stacca dal centro in modo uniforme e che si scioglie in bocca, allora siamo di fronte a un panettone fatto a regola d’arte. In bocca il panettone non deve come formare un boccone gommoso: in questo modo le farine, se di qualità, confermeranno di aver potuto incorporare i grassi in modo uniforme. La fetta del panettone, poi, deve sfilarsi dall’inizio alla fine, e non venire via a pezzi. L’alveolatura all’interno del panettone deve essere uniforme e ben sviluppata (quelli industriali l’hanno piccola per seccarsi meno e durare di più); la crosta deve essere ben salda con la pasta e di un colore bruno-dorato, senza bruciature. Quantità, dimensione e densità dei canditi è sintomo di qualità; una consistenza leggera e soffice indica che la lievitazione si è compiuta con tempi adeguati e quindi anche la cottura è avvenuta nel modo corretto; buon odore (odori chimici o stantii indicano un prodotto scadente); poter riconoscere tanti e diversi profumi – da quello del lievito madre a quello dei canditi o della crosta – è sinonimo di complessità, tempi lunghi tempi di lavorazione, che consentono la formazione degli aromi terziari e regalano una texture omogenea e equilibrata. Il giusto dosaggio delle componenti aromatiche contribuisce al gusto finale; tutti i sapori devono riconoscersi, senza che nessuno prevalga sull’altro. Qualità e provenienza degli ingredienti riportati nelle etichette e data di scadenza: più è breve, più sarà fatto senza conservanti; Un assaggio coerente, omogeneo, equilibrato, rimarrà impresso nella memoria come qualcosa di altamente piacevole e sarà più facile da ricordare: questa sensazione sarà il vero parametro per una futura scelta più consapevole.
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