Enrico Intra Riccardo Scivales    L’IMPROVVISAZIONE È IMPROVVISATA?                                   Editing a cura di                                 Maurizio Franco                                                                  Una coedizione                                                                           1
Una coedizione Musicians & Producers e M'O - Musica Oggi    © 2021 Musicians&Producers, Via Legnone 90 - 20158 Milano Italia  www.musiciansandproducers.com    © 2021 Associazione Culturale Musica Oggi, Via Decorati al Valor Civile, 10 - 20138 Milano  associazionemusicaoggi.it    Editing a cura di Maurizio Franco e Massimo Monti    Trascrizioni e impostazione grafica partiture: Luca Missiti    Illustrazione di copertina: Martina Scivales    Proprietà per tutti i Paesi: Musicians&Producers/ M'O - Musica Oggi  Tutti i diritti riservati - All rights reserved  Ogni riproduzione non autorizzata è proibita dalla legge - Any unauthorized reproduction is  prohibited by law
INDICE      5                                     7  Prefazione                         9       Maurizio Franco               11       Enrico Intra       Riccardo Scivales            13                                    15  Saggi                             31       Roberto Favaro               41       Vincenzo Caporaletti         47       Giancarlo Schiaffini         51       Albert Hera                  55       GeGè Telesforo       Maurizio Franco              63    Contributi musicali               65       Sezione strumentale         68            Andrea Andreoli         76            Claudio Angeleri       80            Tony Arco              85            Silvia Bolognesi       89            Marcella Carboni       98            Daniele Cavallanti     101            Federica Colangelo    104            Gabriele Comeglio     107            Caterina Crucitti      113            Paolo Damiani          117            Franco D'Andrea       120            Donatello D'Attoma    128            Tullio De Piscopo      131            Andrea Dulbecco        135            Giovanni Falzone      139            Claudio Fasoli        142            Laura Fedele          145            Paolo Fresu           150            Luca Gusella           153            Eloisa Manera         160            Rita Marcotulli       166            Marco Mariani         170            Federica Michisanti    175            Fabio Morgera         182            Roberto Ottaviano     185            Zoe Pia               195            Helga Plankensteiner  199            Enrico Rava           203            Mario Rusca           208            Giancarlo Schiaffini   213            Emilio Soana            Paolo Tomelleri
Giovanni Tommaso                                      216            Tino Tracanna                                         222            Marco Vaggi                                           226            Giulio Visibelli                                      235         Sezione vocale                                             241            Maria Pia De Vito                                     245            Ada Montellanico                                      248            Walter Ricci                                           251            Daniela Spalletta                                     259            GeGè Telesforo                                        262            Cristina Zavalloni                                    272                                                                  278       L'improvvisazione è veramente improvvisata?       (di Riccardo Scivales)                                     282       Oltre alle categorie. Duke Ellington e “Fugi”, ovvero      288       l’instancabile esplorazione del blues, e la conciliazione  292       dei mondi       (di Riccardo Scivales)                                     298       Art Tatum, l’inarrivabile giocoliere dell’improvvisazione       (di Riccardo Scivales)                                     302       “China Boy” e il pianismo Swing di Teddy Wilson            306       (di Riccardo Scivales)       Monk e l’improvvisazione fra modernità e tradizione:        313       \"Functional\"                                                317       (di Riccardo Scivales)                                     323       John Lewis e “Willow Weep For Me”: concisione e lirismo    325       nell’improvvisazione       (di Riccardo Scivales)                                     329       I “block chords” di Red Garland e la sua famosa versione       di “Billy Boy” (di Riccardo Scivales)       Le “Paganini Variations” di Dick Wellstood: un       affascinante viaggio attraverso l’improvvisazione in vari       stili di piano jazz       (di Riccardo Scivales)       Il favoloso basso \"salsa stride\" di Michel Camilo       (di Riccardo Scivales)       La preziosa utilità didattica dei “Piano Montunos”       (di Riccardo Scivales)  Conclusione       Il mio viaggio nel mondo dell’improvvisazione e della       composizione istantanea       (di Enrico Intra)    Gli artisti che hanno partecipato
PREFAZIONE
Maurizio Franco       Il libro che avete tra le mani rappresenta qualcosa di unico, che nasce dal pensiero e  dall'esperienza di un grande musicista quale Enrico Intra e di uno studioso di caratura mondiale  come Riccardo Scivales. L'idea centrale che lo anima, assolutamente originale e innovativa,  è quella di affrontare l'improvvisazione da ogni possibile punto di vista, sia teorico sia pratico,  coinvolgendo un numero impressionante di musicisti e musicologi di fama appartenenti a stili,  generazioni, ambiti di riflessione culturale differenti per affrontare il complesso e affascinante  mondo dell'improvvisazione.       Da una parte troviamo una serie di saggi che definiscono cosa si può considerare  “improvvisazione”, offrendo molteplici punti di vista, anche discordanti tra loro, che sono  il prodotto delle diverse angolature da cui si parte per affrontare la natura della creazione  musicale istantanea.  Dall'altra ci sono esempi di improvvisazioni e brani che rispondono alle tre prassi più utilizzate  per fare musica nel campo jazzistico, cioè quella prettamente tonale, quella legata al modalismo  e quella libera, meno soggetta a vincoli armonici e strutturali. Tutti gli esempi sono commentati  dagli autori con un taglio didattico-informativo che, nel suo insieme, è assolutamente nuovo,  lontano da ogni retorica e utile sia per lo studente che per l'appassionato o lo studioso.       Un capitolo a sé è quello curato da Scivales, che riassume le prassi improvvisative di alcuni  giganti del pianoforte jazz in un compendio di brevi saggi di straordinario valore anche dal  punto di vista didattico, che nel campo degli studi jazzistici formano un corpus che solo  pochissimi altri autori (e in maniera differente) hanno affrontato.       Tutto questo materiale di studio, riflessione, analisi ha anche un'altra, fondamentale  caratteristica: è interamente legato al mondo italiano del jazz sia sul piano strettamente  musicale, sia in quello dei contributi musicologici. Si tratta quindi di un volume che mette in  evidenza l'importanza, la qualità, il valore del nostro panorama jazzistico, sia musicale quanto  culturale, assumendo un valore sprovincializzante in un paese che per decenni e, seppure in  modo più mitigato, anche oggi, ha sempre voluto vivere all'ombra degli Stati Uniti (e, certo,  non solo nella musica). In questo senso diventa un testo di portata storica, anche perché in  primis si pone come strumento didattico e formativo e quindi scardina l'impostazione ancora  troppo “americanocentrica” del modo in cui si insegna jazz in Italia.       Resta aperta una domanda: come utilizzare questo volume? Sicuramente per insegnare la  musica che chiamiamo jazz a tutti coloro che studiano musica, indipendentemente dal genere  praticato. Infatti, didatticamente è fondamentale la parte strettamente musicale per quanto  riguarda l'acquisizione di stilemi linguistici non ortodossi, non legati (se non indirettamente)  ai maestri storici di questa musica, ma in grado di sviluppare una consapevolezza (aiutata dai  commenti dei musicisti sui loro esempi) capace di ampliare gli orizzonti e, nello specifico degli  studenti di jazz, far maturare la comprensione che esiste una varietà e trasversalità espressiva  che porta a misurarsi anche con ambiti creativi generalmente espulsi dagli omologati  “insegnamenti ufficiali”.  Ma, grazie all'imprescindibile complemento della parte teorica, il volume diventa anche  un materiale di studio che esula dal campo strettamente didattico, in cui, per la varietà  dei contenuti e degli spunti, la componente saggistica e di riflessioni personali sul tema  dell'improvvisazione, trascende il campo della formazione pratica diventando un terreno di  approfondimento aperto a tutti, che non necessità di affrontare imprescindibilmente le parti                                                                                7
in notazione.  Un'ultima annotazione riguarda il cast di autori, impressionante nel numero e nella qualità,  che rappresenta un grandioso spaccato del mondo italiano del jazz.                                                                                8
Enrico Intra       Una composizione musicale non suonata è come una poesia nel cassetto non declamata.  Un posto sicuro che, certamente, conserva.  Nessuno, però, può goderne il loro profumo perché silenziose e imprigionate.  Sicuramente le parole, come le note musicali, hanno bisogno di vita.  Di giocare e rincorrersi.  Le parole, ben allineate sulle pagine di un libro, e la melodia su un affascinante e misterioso  contenitore di suoni.       Il Signor Pentagramma.  Ecco, allora, che la figura dello scassinatore di cassetti si impossessa di parole e di note musicali  e come Babbo Natale, la Befana e, nel nostro caso, l'amico Editore, dona a tutti parole e note  musicali riempiendo nuvole di pioggia con suoni e parole.  E, come la pioggia alimenta la terra, il suono e la parola alimentano la vita dando ritmo al  battito del cuore e senso al nostro AMORE.       Queste 200 note sono dedicate a tutti gli editori del mondo, ma in modo particolare ai  coraggiosi Barbara e Massimo.                                                                                9
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Riccardo Scivales       Questo meraviglioso volume raccoglie i contributi di molti tra i più grandi musicisti che  hanno fatto (e continuano a fare) grande il jazz italiano, splendida realtà perfettamente in  linea con lo straordinario contributo “storico” che tanti italoamericani (Nick La Rocca, Frank  Signorelli, Eddie Lang, Joe Venuti, Adrian Rollini, Lennie Tristano, Dodo Marmarosa, Joe Pass,  Chick Corea, Joe Lovano, ecc.) hanno dato a questa musica sin dalle sue origini.  Qui troverete del materiale assolutamente prezioso e innovativo per la didattica, lo studio e il  repertorio, un materiale che è il frutto del lavoro e delle varie esperienze maturate dai nostri  jazzisti in decenni di carriere entusiasmanti e luminose.  Unendo le forze di queste figure così autorevoli del “nostro” jazz, il M° Enrico Intra ha avuto  senz’altro una splendida idea, che segna un momento importante per tutti noi, e che siamo  sicuri darà dei frutti meravigliosi.       Come piccola nota personale, vorrei aggiungere che dopo tanti miei libri e lavori pianistici  pubblicati prevalentemente negli Stati Uniti, questo libro ha per me un significato speciale.  Quando Enrico mi ha fatto l’onore di chiamarmi a co-firmare con lui questo volume, infatti,  ho accolto questa cosa con grande gioia e l’ho anche interpretata come una sorta di prezioso  riconoscimento anche “italiano” del mio lavoro di decenni, lavoro che fino a qualche tempo fa,  per vari motivi, forse è stato noto soprattutto all’estero.       E c’è un’altra cosa molto, molto importante. Durante la realizzazione di questo libro, infatti,  Enrico mi ha donato anche il suo meraviglioso entusiasmo, in un splendido scambio di spunti  e riflessioni che hanno tanto più valore in quanto vengono da un musicista che non solo è  uno dei più grandi jazzisti “europei” di sempre, ma la cui musica è stata suonata e interpretata  anche da leggendari jazzisti “storici” americani come Gerry Mulligan, Milt Jackson e Dave  Liebman, che insieme a lui hanno inciso degli splendidi album. Un grazie davvero speciale,  quindi, va ad Enrico!       Questo libro ha uno straordinario curatore in Maurizio Franco, grande figura della  musicologia jazz italiana, che ha saputo coordinare al meglio il lavoro di una cinquantina di  persone: un’impresa non da poco, e a lui va il nostro più sentito ringraziamento.  Per la loro gentilezza e per come hanno organizzato e seguito splendidamente questo  lavoro, vorrei ringraziare Barbara Bergomi e Massimo Monti di M&P Musicians&Producers, e  l’Associazione Culturale Musica Oggi di Milano.  E, naturalmente, grazie a tutti gli straordinari jazzisti e musicologi (molti dei quali tra i miei  eroi musicali già nella mia adolescenza) che hanno portato il loro prezioso contributo a questo  splendido libro “corale”, momento fondamentale della didattica italiana del jazz, e fantastico  trampolino di lancio per la sua valorizzazione e diffusione nel mondo.  Sarà il libro jazz dell’anno!                                                                                11
SAGGI
Roberto Favaro    IMPROVVISAZIONE E RAPPRESENTAZIONE TRA MUSICA,  ARTI VISIVE E LETTERATURA    I termini della questione: improvvisazione, segno, interpretazione       La riflessione intorno al tema dell’improvvisazione musicale investe organicamente l’area  della cosiddetta musica classica (non dirò qui ancora colta, tanti sono gli equivoci innescati  da una tale definizione sul terreno di confronto tra differenti settori disciplinari e di genere).  Naturalmente non è solo la riflessione a essere investita, ma la prassi stessa, il comportamento  compositivo, le scelte procedurali, gli orientamenti estetici.  Va precisato tuttavia che non si tratta di un coinvolgimento unidirezionale e onnicomprensivo,  né tanto meno omogeneo o storicamente stabile. Il tema dell’improvvisazione entra infatti nella  musica classica nella forma del nodo problematico. In questo senso si avanza qui fin dall’inizio il  carattere di organicità del tema e del suo partecipare attivamente alle questioni vitali dell’area  musicale prescelta. Organicamente e non deterministicamente l’improvvisazione entra nelle  forme di linguaggio e di prassi musicale – compositiva ed esecutiva – interrelandosi con le  linee della storia e della società, del consumo e del pensiero estetico, delle norme compositive  e delle convenzioni interpretative.  Non esiste in altre parole l’improvvisazione tout court, ma qualcosa che con questo nome  procede instabilmente lungo il percorso della storia entrando in relazione con il modificarsi del  senso, della funzione, della forma stessa che ogni epoca, area geografica, tendenza estetica,  singola personalità musicale, hanno voluto attribuire alla musica e al suo complesso (ovvero  articolato) sistema di funzionamento.  Dell’improvvisazione si può dunque parlare solo a partire da una simile premessa di parzialità,  o, meglio, relatività concettuale e pratica. Con il vantaggio che l’argomento assume così  una singolare utilità conoscitiva: a partire dalla sua sponda problematica si può pervenire  a chiarimenti e approfondimenti su questioni estetiche e artistiche più generali ed estese.  Infatti, anche laddove lo spazio dato alla prassi improvvisativa sembra ridursi ai minimi termini  operativi (basti l’esempio della cultura novecentesca degli anni Venti e della cosiddetta Neue  Sachlichkeit o Nuova oggettività germanico-weimariana), si può parlare utilmente di questo  tema, anche in negativo, scoprendo le ragioni di questo assottigliarsi o congelarsi dello spazio  d’azione dell’interprete inteso in quella stagione artistica come protesi oggettivamente  operativa della fonte creatrice.  Ed è proprio nello spazio mentale e fisico aperto tra interprete e compositore che si rileva la  particolare inclinazione che il tema dell’improvvisazione assume nel contesto della musica  classica. Determinanti sono infatti gli elementi in gioco, le parti coinvolte nella catena di azioni  che conduce dal momento creativo all’esperienza ricettiva dell’ascolto o, come si direbbe,  dal momento poietico a quello estesico, ovvero dal compositore all’ascoltatore passando  attraverso il medium dell’esecutore.  Peculiarità della musica classica del passato, e da qui l’ambigua e oggi (per l’oggi) insoddisfacente  categorizzazione di “colta”, è infatti la sua natura alfabetizzata determinata da quel dispositivo  semiografico che è la notazione, protocollo (a sua volta storicamente mutevole e instabile) di  segni più o meno precisati che si situano proprio in quello spazio solo parzialmente colmabile  che si apre tra le intenzioni creatrici e le attese della ricezione.                                                                               15
Vincenzo Caporaletti    ALCUNE RIFLESSIONI SULLA TEORIA AUDIOTATTILE  E LA DIDATTICA DELL’IMPROVVISAZIONE JAZZ    Perché una Teoria delle musiche audiotattili       Qual è la novità della Teoria delle musiche audiotattili (TMA)?1  L’aver impostato in una innovativa ottica transculturale il rapporto tra jazz e musica scritta/  colta occidentale. Non in termini meramente descrittivi, ossia evidenziando strutture formali e  processi creativi – da una parte prevarrebbe l’armonia, dall’altra il ritmo; in una la composizione  e nell’altra l’improvvisazione, e via con tutti i luoghi comuni del catechismo novecentesco –, ma  individuando i fattori causali delle differenti strutture e processi. In altri termini, ricercando in  prospettiva di antropologia cognitiva le ragioni della loro differenza, sia sul piano delle forme  e delle pratiche, sia su quello delle teorie, delle rappresentazioni e dei valori estetici. E la TMA  ha mostrato che le rispettive determinanti causali si possono ricondurre a due diversi modi di  conoscenza ed esperienza della realtà, attivi nella rappresentazione teorica e nella produzione  della musica: le mediazioni cognitive audiotattile e visiva.  Infatti, le griglie cognitive decodificano i dati rendendoli fatti interpretati, perché differenti idee  sul mondo, disposizioni psicologiche, mentalità, finalità fanno percepire le cose – i fenomeni  – in modo diverso.  Se questa dinamica diversificante incide relativamente in ambito personale all’interno di un  contesto sociale condiviso, si fa invece macroscopica sul piano interculturale, come quello  che definisce la distanza antropologica tra la musica della tradizione scritta occidentale,  specie quella del periodo tonale, e il jazz, assieme alle altre musiche (rock, world, pop) che ho  denominato audiotattili.  E ciò vale per la dimensione della rappresentazione – e qui abbiamo le teorie, le sistematiche,  i concetti e i valori – come per il livello della produzione, dove troviamo le pratiche, gli stili  esecutivi, i modi performativi. Ma in cosa differiscono queste griglie cognitive?       La differenza principale è nel rapporto che esse intrattengono con il corpo, inteso non  come mero hardware organico, ma nella sua integrità di psiche e soma, il Leib della tradizione  filosofica fenomenologica.  La struttura cognitiva audiotattile inerisce alla particolarissima capacità di comprensione del  mondo insita nella sfera corporea, alla sua abilità intuitiva a discernere e dare forma a priori  all’accadere. E questo è ancor più essenziale in un regime autografico2 come quello delle  musiche audiotattili.  È la dimensione somatica cui la filosofia fenomenologica ha attribuito un grado di razionalità  autonomo, sottraendola alla rimozione anche sessuofobica che la cultura occidentale giudaico-  cristiana ha inferto, nel suo percorso storico, alla corporeità.  Almeno a partire dalla scomunica della conoscenza sensoriale in Platone a favore  dell’impalpabile essenzialità dell’Idea.3    1 Cfr. Vincenzo Caporaletti, almeno I processi improvvisativi nella musica. Un approccio globale, Lucca, LIM, 2005;  ID., Esperienze di analisi del jazz, Lucca, LIM, 2007; ID., Swing e Groove. Sui fondamenti estetici delle musiche  audiotattili, Lucca, LIM, 2014; ID., Introduzione alla teoria delle musiche audiotattili. Un paradigma per il mondo  contemporaneo, Roma, Aracne, 2019.  2 Cfr. V. Caporaletti, Introduzione alla teoria, cit., p. 59 sgg.  3 Cfr. Vincenzo Caporaletti, “Razionalità dell’improvvisazione|Improvvisazione della razionalità”, «Itinera», n. 10,                                                                               31
Giancarlo Schiaffini    PENSIERINI SULL'IMPROVVISAZIONE       Parlando di improvvisazione in musica si va spesso incontro a equivoci, incomprensioni  e ambiguità sia sul significato della parola stessa, sia sul giudizio morale che le si associa.  Pensiamo alle espressioni come: un grande improvvisatore o: una composizione un po’  improvvisata, che contengono un implicito giudizio ammirato e positivo nel primo caso  quanto negativo nel secondo. Quando parliamo di musica improvvisata includiamo, sotto  questa definizione, numerose e diversissime tecniche esecutive e interpretative appartenenti  ad aree culturali spesso totalmente estranee fra di loro, e che talvolta poco o nulla hanno a che  vedere con la creatività del musicista. Restando alla definizione con connotazioni moralmente  positive, si parla di improvvisazione nella musica di tradizione popolare, nel jazz, nella musica  contemporanea aleatoria, nel rock, nella musica cosiddetta etnica, popolare o colta che sia,  nella prassi esecutiva rinascimentale e barocca e così via. Poiché non sono molti i punti in  comune fra le varie tecniche improvvisative di tutte queste espressioni musicali, nasce il  fondato sospetto che si tenda a etichettare come improvvisata ogni esecuzione che faccia a  meno della partitura scritta.                                                                    *** *** ***       Da circa due secoli, per ragioni storiche e sociali ben precise, la nostra cultura musicale si è  decisamente trasformata in modo da privilegiare la scrittura: per definire partiture d’orchestra,  per stilare manuali e metodi, per divulgare edizioni. In questo modo anche l’educazione e la  formazione musicali hanno assunto connotati sempre più “visivi”, e la stessa composizione ha  risentito delle caratteristiche e dei limiti della scrittura. Quello che con la nostra stenografia  musicale non può essere scritto, darwinianamente si atrofizza sempre più. Così la scrittura  musicale, da indispensabile mezzo di diffusione, è diventata anche un condizionamento per  la creatività. Sembra così naturale oggi, parlando di musica, immaginare un pentagramma  con note e pause ben definite, ma dovremmo tener conto del fatto che la musica europea  o, meglio, eurocentrica, è l’unica fra tutte le culture del mondo a presentare una scrittura  così precisa e meticolosa. Si comprende quindi la tendenza a parlare, nel bene e nel male, di  improvvisazione quando ci troviamo di fronte a qualcosa di non trascrivibile. Allora come si  può definire l’improvvisazione? Questa è quella che gli anglofoni chiamano a good question,  cioè una buona domanda a cui non si può rispondere tanto facilmente.                                                                    *** *** ***       La nostra tradizionale critica romantica, ancora ben presente, tende a farci immaginare il  genio puro come una specie di Spirito Santo che con il suo raggio illumina la mente e stimola  la creazione assoluta. In realtà, il meccanismo creativo nell’improvvisazione è ben più articolato  e complesso. Citando Misha Mengelberg, preferirei la definizione di instant composition. Il  riferimento ironico a un prodotto liofilizzato che, a contatto con l’acqua, riprende il suo stato  fisico originario, è volutamente dissacrante, ma contiene una buona parte di verità.  Il bagaglio espressivo e creativo si forma su percorsi e meccanismi della memoria che  alimentano, giorno dopo giorno, il patrimonio culturale di ognuno di noi. I materiali musicali                                                                               41
Albert Hera    IMPROVVISAZIONE    \"Ciò che è arte non può stare nella paura\"       Questo saggio, da intendersi maggiormente come testimonianza o confessione, è nato  nell’arco di una notte sotto forma di sogno. Nel sogno, ben si sa, la mente lavora per associazioni  spesso illogiche, inconsce. Si può dire che è proprio mentre dormiamo che il nostro intelletto  è teso, come un arco, verso il grande campo dell’improvvisazione. Per questo motivo, il qui  presente non è altro che un atto improvvisativo - mi piace credere – in grado di generarsi con  queste pagine e di espandersi con voi.       Comprendere l’improvvisazione è di vitale importanza. Lo è non solo ai fini di un percorso  scolastico e musicale, ma anche per una visione della vita e della quotidianità.  E allora, la prima domanda da porsi mi pare ovvia: perché è importante improvvisare, oggi?  È importante perché l’improvvisazione è l’elemento chiave che ci permette di comprendere  due cose: la libertà e l’incapacità. La libertà è il primo elemento che dobbiamo ricercare,  desiderare e, ancor di più, comprendere per lasciarci invadere. È il grande campo nel quale ci  muoviamo, senza direzioni che ci indichino la via, quindi il presupposto ideale per dare origini  all’espressività.  L’incapacità è il suo limite, che è anche il nostro. Il limite che fa da confine, oltre il quale la  libertà non può sfociare affinché non venga meno il concetto di rispetto dell’altro. Il limite che  ci vede uomini capaci di distruggere la libertà nel momento in cui ci priviamo della parola  “improvvisazione”. Attenzione: l’improvvisazione potrebbe essere vista come una parola  negativa, per certi versi, perché oggi ci insegnano che non si può improvvisarsi, bisogna essere  sempre perfetti, all’altezza, quelli che non sbagliano mai.  Eppure, c’è un segreto vitale dietro il concetto che stiamo analizzando, e cioè che lo sbaglio  è il fondamento che sta alla base di ogni vero apprendimento. Sbagliare, e quindi ricercare  lo sbaglio affinché si corregga, è il primo passo che ogni improvvisatore deve avere nella sua  valigia degli attrezzi. Nell’improvvisazione, infatti, che sia musicale o ancor di più eseguita con  la voce, si dovrà sostare alla legge del “BOH”, la grande divinità dell’imprevisto che ti dà la  chiave per farti scoprire che in ogni cosa c’è la bellezza. Non bisogna aver paura dell’errore.  Come diceva Samuel Beckett: “ho sempre tentato. Ho sempre fallito. Non discutere. Prova  ancora. Fallisci ancora. Fallisci meglio.”       Da un errore può nascere un’invenzione, come ci insegna anche Edison, che prima di  arrivare all’invenzione della lampadina ha provato e riprovato millenovecentonovantanove  soluzioni diverse. Non bisogna avere paura di questo: ciò che è arte non può stare nella paura.  E allora perché studiamo per improvvisare una cosa perfetta?  Dico sempre a me stesso: improvvisare vuol dire scoprirsi imperfetti ma allo stesso tempo  geniali e unici. Improvvisare e sbagliare sono un valore aggiunto affinché la tua unicità, la  tua grandezza possa esprimersi e nel tempo migliorarsi; far sì che il tuo lato creativo diventi  un’arte espressiva capace non tanto di mostrare quello che sei, ma di tirare fuori, in modo  maieutico, quello che la tua anima vuole esprimere.  L’imprevisto e quindi l’errore sono un mistero. E ci fanno scoprire, paradossalmente, che                                                                               47
GeGè Telesforo    L'IMPROVVISAZIONE È IMPROVVISATA?       La prima domanda che rivolgo agli studenti che incontro in occasione delle mie Master  Class in scuole di Musica e nei Dipartimenti Jazz dei nostri Conservatori, è la seguente: “Perché  i Musicisti odiano i Cantanti?”  Questa provocazione scatena naturalmente reazioni diverse, che portano gli adepti a replicare,  a volte con il sorriso, molto spesso con una rabbia feroce. I Musicisti presenti, dall’alto della loro  presunta preparazione tecnica e teorica, non esitano a elencare le lacune che, purtroppo, i  Cantanti meno preparati evidenziano anche in scena durante le performance live.  “I Cantanti si concentrano solo sull’esposizione melodica dimenticando accordi e intervalli.  Molti non hanno il senso dello swing, non conoscono i ritmi e sono spesso “squadrati”. Alcuni  non sanno staccare il tempo. I Cantanti, invece di concentrarsi sull’interplay con la band  pensano solo alla loro voce e a farsi belli con il Pubblico. E poi non sanno improvvisare!”. E così  via. Un disastro.       I cantanti più sensibili, ammettendo le loro responsabilità, ricordano ai colleghi Musicisti  che la Voce è lo strumento primordiale, interno e delicato, costantemente sottoposto a  condizionamenti esterni, climatici e ambientali, ma anche fisici e umorali.  La replica più interessante e profonda, quasi illuminante sul rapporto fra Cantanti e Musicisti,  me la diede però un giovanissimo interprete “neo-melodico” della provincia di Napoli, che  certamente non sapeva nulla del sottoscritto, di jazz, swing, improvvisazione scat e di Musica  in genere: “I Musicisti odiano i Cantanti perché i Musicisti so’… strunz!”.       Rotto il ghiaccio, a questo punto della lezione faccio notare ai presenti che fra i migliori  cantanti della storia del Jazz si annoverano molti musicisti.  Louis Armstrong, the King of Jazz, trombettista e strepitoso cantante riconosciuto come il  primo scatter della discografia jazz. Chet Baker, James Moody, Dizzy Gillespie, Clark Terry,  George Benson, per citarne solo alcuni. Il pioniere del Vocalese Jon Hendricks e il formidabile  Mel Tormè, Artisti che hanno fatto la storia dell’improvvisazione vocale jazz, e a volte erano  anche ottimi batteristi.  Artisti che in molti casi non avevano frequentato scuole di canto e studiato tecnica vocale, ma  che spesso, in concerto e nei loro album, utilizzavano la voce con estrema disinvoltura e gioia  per cantare temi o proporre assoli scat che divertivano parecchio il pubblico.  Quindi, se i Cantanti per superare i loro gaps dovranno cimentarsi anche con lo studio di uno  strumento, i Musicisti dovranno fare i conti con la loro vocalità.  D’altra parte, se gli assoli più belli della storia del jazz sono definiti “cantabili”, un motivo ci sarà.       Per un bravo cantante contemporaneo è fondamentale conoscere i meccanismi anatomici  che regolano e mettono in funzione le corde vocali, educare la voce con uno studio sano e  attento, facendo vocalizzi quotidiani per allenare il proprio organo-strumento così come uno  sportivo prepara il suo fisico a una competizione.  Quindi, è indispensabile conoscere, frequentare e suonare uno strumento, magari armonico  come il pianoforte o la chitarra, fare ear-training e distinguere gli intervalli, scoprendo così  il magico mondo dell’Armonia per improvvisare e liberare con consapevolezza la propria  personalità creativa.                                                                               51
Maurizio Franco    LE LIBERTÀ DEL JAZZ       Il jazz è un genere musicale specifico, colto e originale, che combina in modo singolare  aspetti visivi e oralità, composizione e libertà di espressione, dando vita a un’arte performativa  la cui natura è definibile con la parola audiotattile1. Questo scritto vuole quindi far luce su  quelle che sono le libertà di cui il jazzista può disporre e tra le quali l’improvvisazione è solo  una possibilità, nemmeno imprescindibile, nonostante nell’immaginario collettivo il jazz  venga spesso identificato come “musica improvvisata”, termine che nel corso dei decenni si  è rivelato decisamente fuorviante, portando a evidenti distorsioni nella sua lettura storica e  nell’analisi della sua estetica.  In sostanza, si è assegnato a questa musica un concetto di libertà espressiva di tipo romantico,  nel quale il genio individuale si erge sopra tutto e tutti indicando ipotetiche strade nuove,  contribuendo così a far nascere le figure messianiche degli improvvisatori capiscuola, quelli  che decidevano le vie del futuro, ritenute valide per tutti in ogni parte del mondo, esaltando e  rendendo centrale “l’assolo improvvisato”, anche quando di improvvisato non aveva nulla. Non  a caso “assolo” è quasi sempre considerato sinonimo di “improvvisazione”, nonostante i due  termini siano tutt’altro che identici nel significato.  A fare le spese di questa distorsione, a cui si aggiunge talvolta la stravagante idea che il jazz  sia musica di “tradizione orale” e non una sintesi tra procedure scritte e pratiche performative  basate sull’oralità, è stata, in primis, la composizione, spesso ignorata o non compresa nella  sua importanza, con il risultato che raramente chi non si occupa di jazz, ma pure moltissimi  che lo amano e lo ascoltano, ha compreso l’importanza dei compositori, persino dei più  importanti, criticando per decenni quelle opere considerate “troppo ambiziose” o “fuori dalla  portata” del jazzista, almeno rispetto ai parametri consueti: la musica eurocolta, in particolare  quella dell’Ottocento.  Eppure, la composizione jazz ha peculiarità che le sono proprie, non è in nessun modo riducibile  all’ambito europeo, segue altre strade, è conscia di dover convivere dialetticamente con il modo  in cui verrà affrontata nella performance e ha così dimostrato una varietà di forme, strutture,  articolazioni che sono state, non certo a caso, gli ambiti nei quali hanno potuto crescere stili e  tendenze. Infatti, se provassimo a leggere la storia del jazz come relazione tra performance e  forme compositive, ci accorgeremmo facilmente dell’importanza di queste ultime e della loro  stretta relazione con i linguaggi, solistici e improvvisativi, maturati sino a oggi.       Il predominio dell’idea individualistica ha avuto, però, un altro aspetto negativo, cioè quello  di non considerare il jazz come “musica collettiva”, nella quale il solista-individuo trova un  modo creativo di esprimersi all’interno di un contesto contrassegnato dalla presenza di altri  musicisti.  Questa idea di “conversazione in musica” è talmente forte che spesso i musicisti che suonano  da soli costruiscono un ipotetico dialogo con se stessi oppure, se in gruppo, creano le loro frasi  con un senso narrativo di tipo teatrale, come se stessero realizzando un dialogo immaginario.  Se, per esempio, ascoltassimo Charlie Parker pensando a una conversazione a più voci ci  accorgeremmo che di frequente usava frasi in successione costruite su registri di altezze  diversi e con figurazioni ritmiche differenti, dando l’idea di mettere in scena più soggetti    1 In tal senso rimando anche al saggio di Vincenzo Caporaletti contenuto in questo stesso volume e, per  approfondimenti ulteriori, a Vincenzo Caporaletti: Introduzione alla teoria delle musiche audiotattili (Aracne,  Canterano, 2019); Maurizio Franco: Oltre il mito – scritti sul linguaggio del jazz (LIM, Lucca 2012).                                                                               55
CONTRIBUTI    MUSICALI             Sezione Strumentale           Sezione Vocale
- Sezione Strumentale               Andrea Andreoli    SWING WITH ME       L’improvvisazione su un giro armonico deve poter funzionare anche senza  accompagnamento alcuno.  Un ottimo esercizio sarà quindi quello di improvvisare facendo sentire tutti i cambi d’accordo  che si incontrano lungo la struttura attraverso l’uso di arpeggi e scale, avendo cura di far cadere  le note dell’accordo sui tempi forti della battuta.  Con l’aggiunta poi delle estensioni (none, undicesime, tredicesime) e dei cromatismi  (enclosures, approcci cromatici) ci si avvicinerà sempre più al linguaggio del be bop.  Anche l’andamento del fraseggio è importante ai fini di un assolo omogeneo e funzionale.  Credo che l’immagine di una sinusoide renda l’idea di come dovrebbero muoversi le frasi  durante lo sviluppo dell’assolo.  Diversamente, un assolo fatto da frasi solo ascendenti o solo discendenti o con movimenti  intervallari ampi e improvvisi, tenderà a rendere il fraseggio troppo duro e lontano dagli  stilemi tipici del jazz.    F maj7     G min7 C 7              F maj7  Bbmin7 Eb7  & b 44 ‰ œjœ œ œ œ œ œ œ nœ bœ œ œ œ #œ œ œ œ œ ‰ œjœ œ bœ bœ œ œ œ œ ‰ œj    Amin7 Ab7  G min7 C 7              F maj7  Abmin7 Db7  & b ‰nœ œnœbœ œ œ œ œ œ œbœ œbœ œ œ œnœ œ œ œ œ œ œ bœ bœ œ œbœ Œ    Gbmaj7     Abmin7 Db7              Gbmaj7  Bmin7 E 7  & b ‰ Jœ bœ bœ ‰ Jœ œ bœ ‰ bJœ bœ bœ œ nœ ‰ bœj Œ bœ bœ œ bœ bœ nœ œ nœ œ bœ œ bœ nœ    Bbmin7 A7  Abmin7 Db7              Gbmaj7  Amin7 D7  & b bœ œbœnœ œbœnœ bœbœbœbœ œbœ Œ                                     ‰bœbœbœ œ œ œ œ nœ nœnœ#œ œ œnœ                           65
Sezione Strumentale -                                      Tony Arco    IMPROVVISAZIONE TONALE       Nell’improvvisazione tonale, il batterista si trova davanti a un’interessante sfida, ovvero  quella di dover seguire una sequenza armonica non potendo contare sulla relazione melodia-  armonia. Questa relazione (che in altri contesti può esser vista come vincolante) è in realtà una  vera e propria guida per il solista melodico, il quale può fruire di strumenti basici quali arpeggi  e scale relative per poter costruire il proprio fraseggio.  In realtà, gli assoli più efficaci sono quelli che riescono a coniugare meglio aspetto melodico  e ritmico, proponendo intervalli funzionali su ritmi altrettanto appropriati, creando così un  binomio vincente.  Quando fraseggio sugli accordi, sia nell’accompagnamento che solisticamente, la mia  modalità di pensiero è analoga, nel senso che penso per frasi melodiche, sebbene l’interfaccia  udibile sia ovviamente il ritmo delle frasi che penso, e non le altezze specifiche. In particolare,  durante l’accompagnamento tendo a creare dei riff, un po’ come i background delle big band,  o anche dei turnaround che permettono a me e ai musicisti con cui suono di identificare il  punto del brano nel quale mi trovo (quale chorus, in quale sezione).  Ovviamente, a seconda dell’estetica del gruppo e i conseguenti riferimenti stilistici, questa  modalità sarà più o meno esplicita, e quindi più o meno leggibile.                                                  BLUES     ã 44 x x œx x x œx x x œx x œ œx x x œx x x œx x x œx x œ œx    ã x x œx x x œx x x œx x œ œx x x x œx x x œx x x œx x x œ                                                                                     ≤    ãx  x œx x  x œx       x  x œx x  x œx      x œ œx  x  x œx  x œ œx  œx  œx  œx  x                                                                                   œ                                            76
Sezione Strumentale -                           Silvia Bolognesi       L’improvvisazione per me è la via più pura e sincera per fare Musica, soprattutto se si parla  di improvvisazione radicale.  L’ascolto e l’istinto del musicista (possibilmente affinati con lo studio) diventano quindi gli  unici strumenti compositivi applicabili nell’interazione e la composizione estemporanea.       Sebbene sia molto legata alla tradizione jazz, mi diverte e appassiona l’improvvisazione che  va oltre i generi.       Questo sicuramente influenza le mie composizioni; per alcuni aspetti assumono le  forme legate a quelle della tradizione jazz, ma spesso cercano semplicemente di fornire un  canovaccio per la performance, uno spunto per l’improvvisazione, soprattutto se pensate per  large ensemble.                           80
Sezione Strumentale -                           ORCHESTRA LAB                           82
- Sezione Strumentale                       Gabriele Comeglio    IMPROVVISAZIONE SU STRUTTURA ARMONICA       Questo tipo di improvvisazione è strettamente legato alla logica degli accordi che si  collegano tra loro.  I grandi maestri in questo campo sono stati i boppers, che hanno portato l’arte della  riarmonizzazione a livelli definitivi, segnando per sempre quello che è considerato il  “vocabolario” dei jazzisti di tutto il mondo.  Come un pianista classico non può considerarsi tale se non sa eseguire Mozart o Beethoven,  anche i jazzisti devono possedere una completa padronanza di questo stile.  Negli anni si è però sviluppato un linguaggio legato ad un tipo di armonia “non funzionale”  che si propone di uscire dagli schemi abituali del cosiddetto II-V-I, consentendo di esplorare  nuove sonorità e nuove possibilità.  Ho cercato quindi di creare un brano dove, nonostante gli accordi cambino (ma non siano  analizzabili “funzionalmente”), l’improvvisazione si serva di una semplice scala pentatonica  usata con oculatezza.                       STRANGE CHORDS           Abmaj7      G7sus4          F7sus4/Gb           Bbadd9/D                    œj œ œ œ œ œ œ œ bœ œ bœ œ œ bœ œ œ  & 44 ‰ œ œ œ bœ.                                       œ œœú        Eb7sus         G min7          Dbmaj7     Bb7sus    & Œ œ œ bœ œ œ bœ  œ. bJœ œ   œ œ œ. bJœ œ œ œ œ bœ œ œ ú    5        F min7        G min11          Abmaj7              F add9/A    & œ. œj ú         œ œ bœ œ ú       œ œ bœ œ œ bœ œ œ   w    9                                  101
- Sezione Strumentale    RARO MOLTEPLICE    111
- Sezione Vocale    Ada Montellanico       L’improvvisazione è raccontare una propria storia e se dovessi provare a sintetizzarla in  poche parole la definirei semplicemente come “la reazione a uno stimolo sonoro”.  Essendo una reazione implica molti fattori: lo stato del momento e il rapporto con gli altri che  normalmente sono i musicisti con cui si suona.       Per reazione intendo un’azione creativa dell’individuo che risponde a uno stimolo che può  essere rappresentato dalla struttura di un tema musicale che assume vari significati a seconda  del momento in cui si suona.  Per questo ogni improvvisazione in quanto atto compositivo estemporaneo è diversa, perché  mai saremo uguali a noi stessi, attimo dopo attimo. Lo stesso brano può evocare vari sentimenti,  ogni volta differenti come ogni volta sarà differente il rapporto che si stabilisce su un palco con  gli altri musicisti nella esecuzione dello stesso.       Imprescindibile avere una preparazione, fatto ben sintetizzato dalla famosa frase del  grande Giancarlo Schiaffini: “L’improvvisazione non si improvvisa”, a dimostrazione che si  deve raggiungere un grado di consapevolezza se si vuole intraprendere questa strada, ma allo  stesso tempo se si esclude che questo atto sia la ripetizione di cliché più o meno acquisiti negli  anni di studio, il musicista dovrà predisporsi al rischio nell’esplorazione di se stesso ed esporsi a  un profondo ascolto interno nel rendere suono, melodia, ritmo la propria narrazione musicale,  come allo stesso tempo sarà importantissimo un ascolto attento dei propri compagni di viaggio  che possono nell’esecuzione dare input tali da modificare l’atto creativo estemporaneo.       Per quanto riguarda la voce, l’approccio è uguale a quello strumentale, ma quello che  potrebbe rendere l’improvvisazione qualcosa di diverso sono le parole.  Si può improvvisare sul testo, sul suono di una parola senza usare quello che viene chiamato  normalmente scat.  In questo senso un cantante ha maggiore ampiezza di scelta perché possiede nella sua natura  una doppia possibilità, l’approccio puramente sonoro e l’approccio testuale. Entrambi sono a  servizio dell’improvvisazione come narrazione personale che sarà tanto più originale quanto  più si correrà il rischio di lasciarsi andare per esprimere la propria interiorità in stretta relazione  al materiale sonoro e ai musicisti che partecipano all’evento creativo.  In fondo improvvisazione e interplay rappresentano storicamente le colonne portanti del  linguaggio jazzistico e ne costituiscono il nucleo fondante.    IMPROVVISAZIONE SU STRUTTURA ARMONICA    Da Quando (A. Montellanico - L. Tenco), dal Cd Danza di una ninfa (Egea Records)       L'approccio improvvisativo è legato al movimento armonico e alle note in relazione a questo.  Imprescindibile per me un approccio cantabile e per questo ho preferito nella sua semplicità  partire da una cellula melodica e svilupparla nella progressione degli accordi reiterando in  parte la costruzione della frase e modificandola in relazione all’armonia che cambia.  Potremmo definirla una “improvvisazione motivica”.  Necessario nella semplicità di una improvvisazione privilegiare l’intenzione espressiva, il timbro  vocale, il legato della frase e gli accenti utilizzati che potrebbero cambiare radicalmente il  senso della melodia stessa, ma soprattutto la consequenzialità di un discorso per frasi che,                                                                              245
Sezione Vocale -                                Walter Ricci       Per un cantante, l’improvvisazione vocale è la pratica più importante per muoversi dentro  gli accordi e scoprirne ogni colore e tensione.       É il percorso giusto per chi vuole approfondire il senso ritmico, e pulsante, dello swing  nonché degli stili derivati.       Imitando le grandi orchestre, e gli assoli dei giganti del jazz, scolpiti negli intramontabili  standard, il fruitore può arricchire le proprie informazioni melodiche e ottenere una grande  ispirazione in fase di composizione di una nuova melodia.                                             BLUES SOLO                       Bb7 Eb7 Bb7                                                                  B b 7( # 5)  & bb 44 ≈ Rœ œ œ bœ œ bœ œ œ Œ œj œ œ œ œ Œ                                                             3                                                                                   œbœ œ œnœ œ œ               œ bœ  nœ bœ                                                                                                         œ              Eb7      Œ  ‰ œj œ œ bœ œ œ bœ œ                            Bb7 D min7(b5) G 7(#5)    & bb nœj bœ                                                           œ bœ œ œ œj œ œ bœ œ œ œ œ œ ≈ œ             C min7                         3                                            Bb7 G 7(b9) C min7               F7                                                                                       ~œ~~~~         3  & bb #œ œ ≈ œ œ                                 F7                                           b  œ      œ   œ.  Ó                                                                                                     œ                        œ nœ œ bœ œj œ bœ bœ œ nœ œ          Bb7         bœ œ œ œ œ œ nœ~E~b~7 ≈ bœ œj œ œ œ œ œbœ                   Bb7                  F min7          Bb7alt  & bb                                                                                 ≈ nœ œ œ bœ nœ nœ nœ œj œ œ. œ        œœœ                                                                     œ bœ.            Eb7 3         3                                            Bb7               3    & bb bœ œ œ bœ bœ œ.  E `7                                       n œj œ œ     œ  œ   D min7(b5)                G7alt                                                                             œ         œ œ ≈ œ œ œ œ œ nœ œj bœ œ œ                        Œ     œbœ œ œ œ nœ          C min7          F7 Bb7 G 7 C min7 F7(b9)                                                                 Bb7  & bb                                                                                       3                 3                                              3  nœ nœ œ.bœœ                                     ŒÓ                                                                                   ‰ œbœ œbœnœbœbœ œ             œ        #œ œ œ œ œ.     œ bœ bœ œ bœ œj bœ œ œ œ                                                                     248
Riccardo Scivales    L’IMPROVVISAZIONE È VERAMENTE IMPROVVISATA?*    Appunti sull’improvvisazione pianistica jazz dalle origini al Bebop       Col suo meraviglioso e consueto entusiasmo, durante la lavorazione di questo libro il M°  Intra mi ha chiesto di scrivere (come fosse una cosuccia da nulla) un capitolo aggiuntivo che  rispondesse alla bella domanda “L’improvvisazione è veramente improvvisata?”, intesa a  capire se l’improvvisazione jazzistica sia una creazione davvero estemporanea, frutto esclusivo  della cosiddetta “ispirazione” e dell’estro del momento, oppure un qualcosa che in qualche  modo è preordinata (a vari livelli) in anticipo. Una domanda per così dire “da un milione di dollari”,  e che potrebbe scuotere secolari certezze dell’immaginario collettivo del jazz. E una domanda  che in realtà ha numerose risposte, in quanto esistono vari approcci all’improvvisazione, che  dipendono anche dalle epoche e gli stili jazzistici, dai musicisti, e dagli strumenti da loro  suonati. Inoltre, come è noto l’improvvisazione cambia a seconda del contesto nel quale si  svolge: tonale, modale, free, o un mix di questi, ecc. Per quanto possibile, in questo capitolo  tenteremo di rispondere a questo bel quesito, specialmente riferito al pianismo jazz dalle  origini al Bebop.       Per iniziare, ci pare importante sottolineare subito una cosa tanto ovvia quanto  fondamentale. A differenza degli strumenti monodici, il pianoforte (strumento polifonico per  eccellenza) presenta un onere in più. Il pianista, infatti, deve suonare contemporaneamente  melodia, armonia, e spesso anche i bassi. E come se questo non bastasse, deve “tenere insieme”  il tutto anche dal punto di vista ritmico. Per fare una similitudine, il pianista jazz che suona  con un complesso approccio “a due mani” (specialmente in piano solo, e con lo sfruttamento  completo della tastiera) è un po’ come un auriga che tiene in mano le redini dei quattro  cavalli di un cocchio, nel senso che egli deve tenere contemporaneamente a bada quattro  cose, che non si fermano mai: i bassi, il ritmo, l’armonia e la melodia. Non è un compito da  poco, ed è un approccio molto diverso da quello richiesto agli strumenti monodici. Altra cosa  importante, va inoltre considerata la differenza tra il pianismo jazz tradizionale (generalmente  basato su questo complesso approccio “a due mani”) e quello moderno, inaugurato dal Bebop  (con importanti antecedenti in Ellington e Basie), in cui il lavoro maggiore è svolto dalla mano  destra, con la sinistra che spesso accompagna in modo scarno, ”punteggiando” ritmicamente  gli accordi. Infine, naturalmente c’è una grande differenza tra il suonare in un contesto  di piano solo o di ensemble, situazione quest’ultima che indubbiamente lascia maggiore  libertà al pianista, “sgravandolo” generalmente dagli onerosi compiti di esplicitare la ritmica e  portare i bassi.1       Detto questo, nella mia esperienza di ascoltatore e di trascrittore di brani pianistici jazz ho  potuto notare che in molte incisioni dei più grandi maestri di varie epoche e stili troviamo spesso  la permutazione e magistrale rielaborazione estemporanea di idee preesistenti, con ogni  evidenza concepite e già accuratamente “esplorate” in anticipo. Come avviene probabilmente  con tanti altri strumentisti jazz, naturalmente anche i pianisti hanno un proprio bagaglio di    1 E in ambito Pop/Rock, qualunque tastierista che si sia trovato a improvvisare con la mano destra (mentre la  sinistra non suona, o suona come accompagnamento dei lunghi bassi o dei semplici accordi tenuti) ha potuto  sperimentare l’infinita (e assolutamente fantastica) libertà di improvvisazione “estemporanea” determinata da  questo approccio.                                                                              272
Riccardo Scivales    ART TATUM, L’INARRIVABILE GIOCOLIERE DELL’IMPROVVISAZIONE       Come altri jazzisti, anche l’immenso Art Tatum ricorreva spesso a figure particolari e  precostituite, di sua invenzione, che anzi erano parte integrante e funzionale del suo linguaggio  improvvisativo.  Ciò che è stupefacente è come questo titano della musica rielaborava continuamente queste  sue frasi—chiamate in gergo “runs”—e dava loro una forma sempre nuova variandone gli  attacchi, le risoluzioni o dei passaggi, cambiandone i ritmi, combinandole con altre runs, ecc.  In tal senso, egli fu uno sbalorditivo e caleidoscopico “giocoliere della musica”. E non solo  questo. Andando oltre all’aspetto più virtuosistico e appariscente delle sue incisioni, infatti,  non si insisterà mai abbastanza sul fatto che egli fu un musicista in anticipo di almeno un  decennio sul jazz dei suoi tempi.  Nelle note di copertina del LP Pieces of Eight, Arnold Laubich ha scritto che le volate melodiche  a note singole di Tatum anticipano Charlie Parker, e forse anche Coltrane. E secondo il pianista  Dick Hyman, le innovazioni armoniche dei boppers erano semplicistiche rispetto a quanto  faceva Tatum1.  Del resto, un Charlie Parker diciottenne seppe riconoscere subito la grandezza e l’importanza  di Tatum, tanto che nel 1938 lavorò per tre mesi nella cucina di un ristorante di Harlem solo per  poterlo ascoltare attentamente in piano solo e assimilarne il linguaggio.  Bud Powell disse che, quando suonava le ballads, Tatum gli “guidava le mani”, Charles  Mingus una volta affermò che (contrariamente all’opinione comune) Tatum era stato “ancora  più importante di Charlie Parker”, e Sir Roland Hanna riteneva che Tatum fosse stato più  importante ancora di Louis Armstrong e Bix Beiderbecke per “gli sviluppi del jazz a venire”2.       Com’è noto, nonostante tutte queste qualità l’approccio improvvisativo di Tatum è stato  talvolta criticato. Prendendo come pretesto il fatto che egli registrò varie versioni molto simili  tra loro dei suoi famosi “arrangements” pianistici, alcuni critici e storici del jazz hanno infatti  affermato che egli non fu un vero e proprio improvvisatore jazz, spontaneo ed autentico.  Una conclusione, questa, alquanto frettolosa e disattenta, ignara di tanti altri aspetti della  discografia e dell'arte immensa di questo musicista, e probabilmente influenzata dal fatto che  le sue virtuosistiche runs sono talmente appariscenti (ed eseguite a velocità prodigiose) che  l’ascoltatore comune, il critico musicale e anche molti musicisti ne riescono a percepire solo  gli aspetti più esteriori e superficiali.  Noi pensiamo invece che per rendersi conto almeno un po’ dell’infinita grandezza di Tatum,  i suoi detrattori dovrebbero ascoltare i suoi brani a velocità rallentata, così da cogliere tutta la  varietà di queste runs e delle loro varianti estemporanee, e prestare più attenzione anche a  quanto egli suonava tra queste runs.  In tal senso, sempre Dick Hyman ha giustamente osservato che Tatum “combinava il vocabolario  di base delle sue runs e delle sue scale in modo che esse non suonassero mai come degli  esercizi tratti da un manuale, e la sua improvvisazione lineare si sviluppava partendo dalla sua    1 In Dick Hyman, Piano Pro, Katonah, New York, Ekay Music, 1992, p. 26, dove Hyman scrive testualmente: «[…] the  advances in harmony of the boppers were simplicistic compared to Tatum’s usage.»	  2 Tutte queste affermazioni (e le loro fonti) sono riportate nel capitolo Art Tatum e le ”pentatoniche”, a pag. 116-120  del mio libro Storie di Vecchi Pianisti Jazz… e di come funzionava la loro musica (Venezia, Scivales Music, 2020).	                                                                              282
Esempio 6  Esempio 7                                                                              286
Esempio 6                                                                              297
Esempio 4                                                                              312
GLI ARTISTI E GLI STUDIOSI  CHE HANNO PARTECIPATO                                                                              329
Andrea ANDREOLI    Si diploma in Trombone presso il Conservatorio “G. Verdi” di Como, sotto la guida dei Maestri Pierluigi  Salvi e Fulvio Clementi.  Consegue il diploma di II livello in Trombone jazz presso il Conservatorio Verdi di Milano sotto la guida di  Giovanni Falzone.  Vince il concorso per primo Trombone presso la Norrbotten big band (Svezia).  Tra le collaborazioni di spicco vi sono quelle con: WDR Big Band, Incognito, Maria Schneider, Vince  Mendoza, Fred Hersch, Lew Soloff, Bob Mintzer, Bill Laurence, Randy Brecker, Erich Marienthal, Mike  Mainieri, Dave Weckl, Enrico Rava, Enrico Intra, Tino Tracanna.  Ha inoltre suonato in importanti festival come il London Jazz Festival, Torino Jazz Festival, Bergamo Jazz,  Bulach jazz festival, Malta Jazz Festival, Freiberg Jazz Tage e molti altri.  Vanta numerose collaborazioni discografiche a livello nazionale ed internazionale tra cui: WDR Big Band,  Fred Hersch, Vince Mendoza, Bob Mintzer, Bill Laurence, Enrico Intra, Norrbotten Big band, Vein Trio e la  Nomination ai Grammy Awards 2020 con l’album Begin Again di Fred Hersch e WDR Big Band.  Insegna Trombone jazz presso i civici Corsi di Jazz di Milano e il Conservatorio Verdi di Milano.    Claudio ANGELERI    Studia con il M° Aldo Sala perfezionandosi successivamente in pianoforte, composizione e arrangiamento  in Italia e negli Stati Uniti con Mark Levine, Cedar Walton, Jaky Byard, Paul Bley, Giorgio Gaslini. Si laurea  in architettura al Politecnico di Milano. Consegue il Diploma in Pianoforte Jazz alla University of West  London a pieni voti e la certificazione Grade 8 in Keyboards al Trinity College London.  Inizia l’attività concertistica nel 1974 e da allora sono innumerevoli i festival, nazionali e internazionali, a  cui ha partecipato, suonando e incidendo con, tra i tanti, Gabriele Comeglio, Charlie Mariano, Steve Lacy,  Jerry Bergonzi, Bobby Watson, Franco Ambrosetti, Bob Mintzer, Herb Pomeroy, Mike Richmond, John  Riley, Kenny Wheeler, Sarah Jane Morris, Franco Cerri, Massimo Urbani, Gianni Basso, Tony Scott, Heiri  Kaenzig.  Ha inoltre collaborato con Giorgio Albertazzi e con il poeta Lawrence Ferlinghetti per il festival di Notti  di Luce e ha portato in musica testi di Italo Calvino. Vanta una discografia a proprio nome di 20 titoli, ha  pubblicato due testi di didattica pianistica e scritto saggi e articoli tecnici su riviste italiane e straniere.  Direttore artistico di rassegne musicali, tra cui Notti di Luce, è fondatore a direttore del CdpM di Bergamo,  struttura di didattica musicale di livello internazionale.    Tony ARCO    Avviato allo studio dello strumento dal Maestro Lucchini, a sedici anni Tony Arco incontra Tullio De Piscopo,  con cui studia per alcuni anni, instaurando un profondo legame d'amicizia, parallelamente all’inizio della  sua vita professionale che ha nel club Capolinea e nel gruppo di Piero Bassini il suo punto di partenza.  Trasferitosi negli USA, diventa il batterista del mitico \"Wally's Jazz Club\" di Boston, dove suona nei gruppi  di Roy Hargrove e di Antonio Hart e con tanti altri musicisti, tra i quali John Medesky e George Garzone.  Al suo ritorno in Italia suona con i gruppi di Gigi Cifarelli, Mario Rusca e Antonio Faraò, e nella Big Band  di Demo Morselli, partecipando al \"Maurizio Costanzo Show\". Il 1995 segna l'incontro con Enrico Intra e  Franco Cerri, che gli offrono la cattedra di docente ai prestigiosi Civici Corsi di Jazz di Milano, oltre al ruolo  di batterista nella Civica Jazz Band e di direttore del gruppo di percussionisti Time Percussion, ensemble  stabile della scuola. Oggi Arco è considerato unanimemente un punto di riferimento della didattica  oltre ad essere coinvolto in collaborazioni artistiche ai massimi livelli del jazz italiano e internazionale. Le  collaborazioni concertistiche includono Mark Murphy, Bobby Watson, Kenny Barron, Charles Tolliver, Tony  Scott, Dave Liebman, Enrico Pieranunzi, Franco D'Andrea, Enrico Rava, Paolo Fresu, Franco Ambrosetti,  Roberta Gambarini, Marcus Stockhausen, Gianluigi Trovesi, e tanti altri. È membro della \"Montecarlo  Nights Orchestra\" di Nick The Nightfly e collabora con le Big Band di Paolo Tomelleri e la \"J.W. Orchestra\"  di Marco Gotti. Vanta una discografia di rilievo, con oltre ottanta cd registrati con grandi artisti italiani e  internazionali. Ha pubblicato due metodi per batteria nella serie Master Jazz della BMG.                                                                              331
Silvia BOLOGNESI    Contrabbassista, compositrice e arrangiatrice, diplomata in contrabbasso presso l'Istituto Franci di Siena,  ha studiato ai corsi di Siena Jazz con Paolino dalla Porta, Furio di Castri e Ferruccio Spinetti. Gli incontri più  significativi per la sua formazione musicale sono stati quelli con William Parker, Muhal Richard Abrams,  Lawrence “Butch” Morris, Roscoe Mitchell e Antony Braxton. Leader di diverse band, fa anche parte del  trio d’archi Hear In Now, con cui nel 2017 ha partecipato al progetto di Roscoe Mithcell “Omaggio a John  Coltrane”. Ha inoltre suonato e inciso nell’Art Ensemble of Chicago 50th Anniversary Project. Dal 2010 ha  dato vita alla propria etichetta discografica, la Fonterossa Records, da cui è nato nel 2015 il minifestival,  ospitato da Pisa Jazz, “Fonterossa Day”. Ha collaborato con un gran numero di prestigiosi artisti italiani e  stranieri delle più diverse tendenze stilistiche., da Stefano Bollani a Ken Vandermark, da Dee Alexander  a Maria Pia De Vito. Nel 2010 ha vinto il Top Jazz, organizzato dalla rivista Musica Jazz, come miglior  nuovo talento italiano e, nello stesso anno, il trofeo \"In Sound\" per la categoria contrabbassisti.  Insegna  contrabbasso e musica d'insieme all’Accademia Siena Jazz e tiene seminari sull'improvvisazione e la  \"Conduction\".    Vincenzo CAPORALETTI    Vincenzo Caporaletti è il teorico che ha introdotto nel mondo musicale il concetto di “audiotattile”,  rivoluzionando gli studi legati al jazz, ma con riflessi importanti anche sulla comprensione del pop, del  rock, della world music e, persino, sull’analisi della musica eurocolta e delle sue varie epoche storiche.  Professore di Musicologia generale e Musicologia transculturale presso l’Università degli Studi di Macerata,  è anche direttore del Centre International de Recherche sur le Jazz et les Musiques Audiotactiles alla  Sorbone Université di Parigi, oltre a dirigere varie collane editoriali scientifiche e riviste di musicologia.  Tra le sue numerose monografie, che si aggiungono a saggi pubblicati sulle più prestigiose riviste  musicologiche internazionali, occorre ricordare il fondamentale: I processi improvvisativi nella musica.  Un approccio globale, il più completo studio esistente sulla prassi dell’improvvisazione nelle varie  culture del pianeta; Esperienze di analisi del jazz; Swing e Groove. Sui fondamenti estetici delle musiche  audiotattili; Introduzione alla teoria delle musiche audiotattili. Tra i suoi filoni di ricerca troviamo  revisioni e trascrizioni di pagine importanti della storia del jazz con particolare riferimento a Jelly Roll  Morton e Tiger Rag, a Django Reinhardt nella sua esecuzione swing del Concerto in re minore di Johann  Sebastian Bach e alla libera improvvisazione dei due pianoforti di Enrico Intra ed Enrico Pieranunzi nel  brano Bluestop. Ha inoltre insegnato Analisi delle forme compositive e performative jazz al Conservatorio  romano di Santa Cecilia.    Marcella CARBONI    Arpista, compositrice, improvvisatrice e didatta, oltre alle tappe formative tradizionali, dal diploma in arpa  classica alla laurea in jazz e allo studio della composizione, ha trovato la sua strada grazie a collaborazioni  con nomi di punta della scena europea quali Bruno Tommaso, Rosario Giuliani, Enrico Intra ed Enrico  Pieranunzi, che hanno voluto lavorare con lei spesso scrivendo composizioni pensate per il suo strumento  o affidandole alcune delle proprie pagine. Se da una parte è stata influenzata dal jazz mainstream,  dall’altra le esperienze con Butch Morris, con il Sonic Genome di Anthony Braxton o con il collettivo  di improvvisatori Franco Ferguson hanno contribuito a sviluppare la sua anima di improvvisatrice  radicale. La sua arpa elettroacustica è spesso al centro di trasmissioni televisive e radiofoniche, come  “Piazza Pulita” su La7, “Storie Mondiali” su Sky Arte/Sky Sport e “Radio2 Social Club”. Dal vivo e in studio di  registrazione ha fatto parte delle formazioni più varie, dal solo all’orchestra sino al trio con Paolino dalla  Porta e Stefano Bagnoli. Da sempre in prima linea per l’affermazione dell’arpa come strumento capace  di inserirsi a pieno titolo nell’ambito jazzistico, Marcella Carboni porta avanti da oltre dieci anni un’intensa  attività didattica e divulgativa nei conservatori e nelle scuole d’arpa italiane ed estere. Un’esperienza  che nel 2018 è culminata con la pubblicazione del manuale “Jazz Harp - a Practical Method” per la casa  editrice americana Vanderbilt Music Company.                                                                              332
                                
                                
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