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L'improvvisazione è improvvisata?

Published by bergomi.map, 2023-05-26 15:33:31

Description: Anteprima di "L'improvvisazione è improvvisata?" di Enrico Intra e Riccardo Scivales

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Enrico Intra Riccardo Scivales L’IMPROVVISAZIONE È IMPROVVISATA? Editing a cura di Maurizio Franco Una coedizione 1

Una coedizione Musicians & Producers e M'O - Musica Oggi © 2021 Musicians&Producers, Via Legnone 90 - 20158 Milano Italia www.musiciansandproducers.com © 2021 Associazione Culturale Musica Oggi, Via Decorati al Valor Civile, 10 - 20138 Milano associazionemusicaoggi.it Editing a cura di Maurizio Franco e Massimo Monti Trascrizioni e impostazione grafica partiture: Luca Missiti Illustrazione di copertina: Martina Scivales Proprietà per tutti i Paesi: Musicians&Producers/ M'O - Musica Oggi Tutti i diritti riservati - All rights reserved Ogni riproduzione non autorizzata è proibita dalla legge - Any unauthorized reproduction is prohibited by law

INDICE 5 7 Prefazione 9 Maurizio Franco 11 Enrico Intra Riccardo Scivales 13 15 Saggi 31 Roberto Favaro 41 Vincenzo Caporaletti 47 Giancarlo Schiaffini 51 Albert Hera 55 GeGè Telesforo Maurizio Franco 63 Contributi musicali 65 Sezione strumentale 68 Andrea Andreoli 76 Claudio Angeleri 80 Tony Arco 85 Silvia Bolognesi 89 Marcella Carboni 98 Daniele Cavallanti 101 Federica Colangelo 104 Gabriele Comeglio 107 Caterina Crucitti 113 Paolo Damiani 117 Franco D'Andrea 120 Donatello D'Attoma 128 Tullio De Piscopo 131 Andrea Dulbecco 135 Giovanni Falzone 139 Claudio Fasoli 142 Laura Fedele 145 Paolo Fresu 150 Luca Gusella 153 Eloisa Manera 160 Rita Marcotulli 166 Marco Mariani 170 Federica Michisanti 175 Fabio Morgera 182 Roberto Ottaviano 185 Zoe Pia 195 Helga Plankensteiner 199 Enrico Rava 203 Mario Rusca 208 Giancarlo Schiaffini 213 Emilio Soana Paolo Tomelleri

Giovanni Tommaso 216 Tino Tracanna 222 Marco Vaggi 226 Giulio Visibelli 235 Sezione vocale 241 Maria Pia De Vito 245 Ada Montellanico 248 Walter Ricci 251 Daniela Spalletta 259 GeGè Telesforo 262 Cristina Zavalloni 272 278 L'improvvisazione è veramente improvvisata? (di Riccardo Scivales) 282 Oltre alle categorie. Duke Ellington e “Fugi”, ovvero 288 l’instancabile esplorazione del blues, e la conciliazione 292 dei mondi (di Riccardo Scivales) 298 Art Tatum, l’inarrivabile giocoliere dell’improvvisazione (di Riccardo Scivales) 302 “China Boy” e il pianismo Swing di Teddy Wilson 306 (di Riccardo Scivales) Monk e l’improvvisazione fra modernità e tradizione: 313 \"Functional\" 317 (di Riccardo Scivales) 323 John Lewis e “Willow Weep For Me”: concisione e lirismo 325 nell’improvvisazione (di Riccardo Scivales) 329 I “block chords” di Red Garland e la sua famosa versione di “Billy Boy” (di Riccardo Scivales) Le “Paganini Variations” di Dick Wellstood: un affascinante viaggio attraverso l’improvvisazione in vari stili di piano jazz (di Riccardo Scivales) Il favoloso basso \"salsa stride\" di Michel Camilo (di Riccardo Scivales) La preziosa utilità didattica dei “Piano Montunos” (di Riccardo Scivales) Conclusione Il mio viaggio nel mondo dell’improvvisazione e della composizione istantanea (di Enrico Intra) Gli artisti che hanno partecipato

PREFAZIONE



Maurizio Franco Il libro che avete tra le mani rappresenta qualcosa di unico, che nasce dal pensiero e dall'esperienza di un grande musicista quale Enrico Intra e di uno studioso di caratura mondiale come Riccardo Scivales. L'idea centrale che lo anima, assolutamente originale e innovativa, è quella di affrontare l'improvvisazione da ogni possibile punto di vista, sia teorico sia pratico, coinvolgendo un numero impressionante di musicisti e musicologi di fama appartenenti a stili, generazioni, ambiti di riflessione culturale differenti per affrontare il complesso e affascinante mondo dell'improvvisazione. Da una parte troviamo una serie di saggi che definiscono cosa si può considerare “improvvisazione”, offrendo molteplici punti di vista, anche discordanti tra loro, che sono il prodotto delle diverse angolature da cui si parte per affrontare la natura della creazione musicale istantanea. Dall'altra ci sono esempi di improvvisazioni e brani che rispondono alle tre prassi più utilizzate per fare musica nel campo jazzistico, cioè quella prettamente tonale, quella legata al modalismo e quella libera, meno soggetta a vincoli armonici e strutturali. Tutti gli esempi sono commentati dagli autori con un taglio didattico-informativo che, nel suo insieme, è assolutamente nuovo, lontano da ogni retorica e utile sia per lo studente che per l'appassionato o lo studioso. Un capitolo a sé è quello curato da Scivales, che riassume le prassi improvvisative di alcuni giganti del pianoforte jazz in un compendio di brevi saggi di straordinario valore anche dal punto di vista didattico, che nel campo degli studi jazzistici formano un corpus che solo pochissimi altri autori (e in maniera differente) hanno affrontato. Tutto questo materiale di studio, riflessione, analisi ha anche un'altra, fondamentale caratteristica: è interamente legato al mondo italiano del jazz sia sul piano strettamente musicale, sia in quello dei contributi musicologici. Si tratta quindi di un volume che mette in evidenza l'importanza, la qualità, il valore del nostro panorama jazzistico, sia musicale quanto culturale, assumendo un valore sprovincializzante in un paese che per decenni e, seppure in modo più mitigato, anche oggi, ha sempre voluto vivere all'ombra degli Stati Uniti (e, certo, non solo nella musica). In questo senso diventa un testo di portata storica, anche perché in primis si pone come strumento didattico e formativo e quindi scardina l'impostazione ancora troppo “americanocentrica” del modo in cui si insegna jazz in Italia. Resta aperta una domanda: come utilizzare questo volume? Sicuramente per insegnare la musica che chiamiamo jazz a tutti coloro che studiano musica, indipendentemente dal genere praticato. Infatti, didatticamente è fondamentale la parte strettamente musicale per quanto riguarda l'acquisizione di stilemi linguistici non ortodossi, non legati (se non indirettamente) ai maestri storici di questa musica, ma in grado di sviluppare una consapevolezza (aiutata dai commenti dei musicisti sui loro esempi) capace di ampliare gli orizzonti e, nello specifico degli studenti di jazz, far maturare la comprensione che esiste una varietà e trasversalità espressiva che porta a misurarsi anche con ambiti creativi generalmente espulsi dagli omologati “insegnamenti ufficiali”. Ma, grazie all'imprescindibile complemento della parte teorica, il volume diventa anche un materiale di studio che esula dal campo strettamente didattico, in cui, per la varietà dei contenuti e degli spunti, la componente saggistica e di riflessioni personali sul tema dell'improvvisazione, trascende il campo della formazione pratica diventando un terreno di approfondimento aperto a tutti, che non necessità di affrontare imprescindibilmente le parti 7

in notazione. Un'ultima annotazione riguarda il cast di autori, impressionante nel numero e nella qualità, che rappresenta un grandioso spaccato del mondo italiano del jazz. 8

Enrico Intra Una composizione musicale non suonata è come una poesia nel cassetto non declamata. Un posto sicuro che, certamente, conserva. Nessuno, però, può goderne il loro profumo perché silenziose e imprigionate. Sicuramente le parole, come le note musicali, hanno bisogno di vita. Di giocare e rincorrersi. Le parole, ben allineate sulle pagine di un libro, e la melodia su un affascinante e misterioso contenitore di suoni. Il Signor Pentagramma. Ecco, allora, che la figura dello scassinatore di cassetti si impossessa di parole e di note musicali e come Babbo Natale, la Befana e, nel nostro caso, l'amico Editore, dona a tutti parole e note musicali riempiendo nuvole di pioggia con suoni e parole. E, come la pioggia alimenta la terra, il suono e la parola alimentano la vita dando ritmo al battito del cuore e senso al nostro AMORE. Queste 200 note sono dedicate a tutti gli editori del mondo, ma in modo particolare ai coraggiosi Barbara e Massimo. 9

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Riccardo Scivales Questo meraviglioso volume raccoglie i contributi di molti tra i più grandi musicisti che hanno fatto (e continuano a fare) grande il jazz italiano, splendida realtà perfettamente in linea con lo straordinario contributo “storico” che tanti italoamericani (Nick La Rocca, Frank Signorelli, Eddie Lang, Joe Venuti, Adrian Rollini, Lennie Tristano, Dodo Marmarosa, Joe Pass, Chick Corea, Joe Lovano, ecc.) hanno dato a questa musica sin dalle sue origini. Qui troverete del materiale assolutamente prezioso e innovativo per la didattica, lo studio e il repertorio, un materiale che è il frutto del lavoro e delle varie esperienze maturate dai nostri jazzisti in decenni di carriere entusiasmanti e luminose. Unendo le forze di queste figure così autorevoli del “nostro” jazz, il M° Enrico Intra ha avuto senz’altro una splendida idea, che segna un momento importante per tutti noi, e che siamo sicuri darà dei frutti meravigliosi. Come piccola nota personale, vorrei aggiungere che dopo tanti miei libri e lavori pianistici pubblicati prevalentemente negli Stati Uniti, questo libro ha per me un significato speciale. Quando Enrico mi ha fatto l’onore di chiamarmi a co-firmare con lui questo volume, infatti, ho accolto questa cosa con grande gioia e l’ho anche interpretata come una sorta di prezioso riconoscimento anche “italiano” del mio lavoro di decenni, lavoro che fino a qualche tempo fa, per vari motivi, forse è stato noto soprattutto all’estero. E c’è un’altra cosa molto, molto importante. Durante la realizzazione di questo libro, infatti, Enrico mi ha donato anche il suo meraviglioso entusiasmo, in un splendido scambio di spunti e riflessioni che hanno tanto più valore in quanto vengono da un musicista che non solo è uno dei più grandi jazzisti “europei” di sempre, ma la cui musica è stata suonata e interpretata anche da leggendari jazzisti “storici” americani come Gerry Mulligan, Milt Jackson e Dave Liebman, che insieme a lui hanno inciso degli splendidi album. Un grazie davvero speciale, quindi, va ad Enrico! Questo libro ha uno straordinario curatore in Maurizio Franco, grande figura della musicologia jazz italiana, che ha saputo coordinare al meglio il lavoro di una cinquantina di persone: un’impresa non da poco, e a lui va il nostro più sentito ringraziamento. Per la loro gentilezza e per come hanno organizzato e seguito splendidamente questo lavoro, vorrei ringraziare Barbara Bergomi e Massimo Monti di M&P Musicians&Producers, e l’Associazione Culturale Musica Oggi di Milano. E, naturalmente, grazie a tutti gli straordinari jazzisti e musicologi (molti dei quali tra i miei eroi musicali già nella mia adolescenza) che hanno portato il loro prezioso contributo a questo splendido libro “corale”, momento fondamentale della didattica italiana del jazz, e fantastico trampolino di lancio per la sua valorizzazione e diffusione nel mondo. Sarà il libro jazz dell’anno! 11



SAGGI

Roberto Favaro IMPROVVISAZIONE E RAPPRESENTAZIONE TRA MUSICA, ARTI VISIVE E LETTERATURA I termini della questione: improvvisazione, segno, interpretazione La riflessione intorno al tema dell’improvvisazione musicale investe organicamente l’area della cosiddetta musica classica (non dirò qui ancora colta, tanti sono gli equivoci innescati da una tale definizione sul terreno di confronto tra differenti settori disciplinari e di genere). Naturalmente non è solo la riflessione a essere investita, ma la prassi stessa, il comportamento compositivo, le scelte procedurali, gli orientamenti estetici. Va precisato tuttavia che non si tratta di un coinvolgimento unidirezionale e onnicomprensivo, né tanto meno omogeneo o storicamente stabile. Il tema dell’improvvisazione entra infatti nella musica classica nella forma del nodo problematico. In questo senso si avanza qui fin dall’inizio il carattere di organicità del tema e del suo partecipare attivamente alle questioni vitali dell’area musicale prescelta. Organicamente e non deterministicamente l’improvvisazione entra nelle forme di linguaggio e di prassi musicale – compositiva ed esecutiva – interrelandosi con le linee della storia e della società, del consumo e del pensiero estetico, delle norme compositive e delle convenzioni interpretative. Non esiste in altre parole l’improvvisazione tout court, ma qualcosa che con questo nome procede instabilmente lungo il percorso della storia entrando in relazione con il modificarsi del senso, della funzione, della forma stessa che ogni epoca, area geografica, tendenza estetica, singola personalità musicale, hanno voluto attribuire alla musica e al suo complesso (ovvero articolato) sistema di funzionamento. Dell’improvvisazione si può dunque parlare solo a partire da una simile premessa di parzialità, o, meglio, relatività concettuale e pratica. Con il vantaggio che l’argomento assume così una singolare utilità conoscitiva: a partire dalla sua sponda problematica si può pervenire a chiarimenti e approfondimenti su questioni estetiche e artistiche più generali ed estese. Infatti, anche laddove lo spazio dato alla prassi improvvisativa sembra ridursi ai minimi termini operativi (basti l’esempio della cultura novecentesca degli anni Venti e della cosiddetta Neue Sachlichkeit o Nuova oggettività germanico-weimariana), si può parlare utilmente di questo tema, anche in negativo, scoprendo le ragioni di questo assottigliarsi o congelarsi dello spazio d’azione dell’interprete inteso in quella stagione artistica come protesi oggettivamente operativa della fonte creatrice. Ed è proprio nello spazio mentale e fisico aperto tra interprete e compositore che si rileva la particolare inclinazione che il tema dell’improvvisazione assume nel contesto della musica classica. Determinanti sono infatti gli elementi in gioco, le parti coinvolte nella catena di azioni che conduce dal momento creativo all’esperienza ricettiva dell’ascolto o, come si direbbe, dal momento poietico a quello estesico, ovvero dal compositore all’ascoltatore passando attraverso il medium dell’esecutore. Peculiarità della musica classica del passato, e da qui l’ambigua e oggi (per l’oggi) insoddisfacente categorizzazione di “colta”, è infatti la sua natura alfabetizzata determinata da quel dispositivo semiografico che è la notazione, protocollo (a sua volta storicamente mutevole e instabile) di segni più o meno precisati che si situano proprio in quello spazio solo parzialmente colmabile che si apre tra le intenzioni creatrici e le attese della ricezione. 15

Vincenzo Caporaletti ALCUNE RIFLESSIONI SULLA TEORIA AUDIOTATTILE E LA DIDATTICA DELL’IMPROVVISAZIONE JAZZ Perché una Teoria delle musiche audiotattili Qual è la novità della Teoria delle musiche audiotattili (TMA)?1 L’aver impostato in una innovativa ottica transculturale il rapporto tra jazz e musica scritta/ colta occidentale. Non in termini meramente descrittivi, ossia evidenziando strutture formali e processi creativi – da una parte prevarrebbe l’armonia, dall’altra il ritmo; in una la composizione e nell’altra l’improvvisazione, e via con tutti i luoghi comuni del catechismo novecentesco –, ma individuando i fattori causali delle differenti strutture e processi. In altri termini, ricercando in prospettiva di antropologia cognitiva le ragioni della loro differenza, sia sul piano delle forme e delle pratiche, sia su quello delle teorie, delle rappresentazioni e dei valori estetici. E la TMA ha mostrato che le rispettive determinanti causali si possono ricondurre a due diversi modi di conoscenza ed esperienza della realtà, attivi nella rappresentazione teorica e nella produzione della musica: le mediazioni cognitive audiotattile e visiva. Infatti, le griglie cognitive decodificano i dati rendendoli fatti interpretati, perché differenti idee sul mondo, disposizioni psicologiche, mentalità, finalità fanno percepire le cose – i fenomeni – in modo diverso. Se questa dinamica diversificante incide relativamente in ambito personale all’interno di un contesto sociale condiviso, si fa invece macroscopica sul piano interculturale, come quello che definisce la distanza antropologica tra la musica della tradizione scritta occidentale, specie quella del periodo tonale, e il jazz, assieme alle altre musiche (rock, world, pop) che ho denominato audiotattili. E ciò vale per la dimensione della rappresentazione – e qui abbiamo le teorie, le sistematiche, i concetti e i valori – come per il livello della produzione, dove troviamo le pratiche, gli stili esecutivi, i modi performativi. Ma in cosa differiscono queste griglie cognitive? La differenza principale è nel rapporto che esse intrattengono con il corpo, inteso non come mero hardware organico, ma nella sua integrità di psiche e soma, il Leib della tradizione filosofica fenomenologica. La struttura cognitiva audiotattile inerisce alla particolarissima capacità di comprensione del mondo insita nella sfera corporea, alla sua abilità intuitiva a discernere e dare forma a priori all’accadere. E questo è ancor più essenziale in un regime autografico2 come quello delle musiche audiotattili. È la dimensione somatica cui la filosofia fenomenologica ha attribuito un grado di razionalità autonomo, sottraendola alla rimozione anche sessuofobica che la cultura occidentale giudaico- cristiana ha inferto, nel suo percorso storico, alla corporeità. Almeno a partire dalla scomunica della conoscenza sensoriale in Platone a favore dell’impalpabile essenzialità dell’Idea.3 1 Cfr. Vincenzo Caporaletti, almeno I processi improvvisativi nella musica. Un approccio globale, Lucca, LIM, 2005; ID., Esperienze di analisi del jazz, Lucca, LIM, 2007; ID., Swing e Groove. Sui fondamenti estetici delle musiche audiotattili, Lucca, LIM, 2014; ID., Introduzione alla teoria delle musiche audiotattili. Un paradigma per il mondo contemporaneo, Roma, Aracne, 2019. 2 Cfr. V. Caporaletti, Introduzione alla teoria, cit., p. 59 sgg. 3 Cfr. Vincenzo Caporaletti, “Razionalità dell’improvvisazione|Improvvisazione della razionalità”, «Itinera», n. 10, 31

Giancarlo Schiaffini PENSIERINI SULL'IMPROVVISAZIONE Parlando di improvvisazione in musica si va spesso incontro a equivoci, incomprensioni e ambiguità sia sul significato della parola stessa, sia sul giudizio morale che le si associa. Pensiamo alle espressioni come: un grande improvvisatore o: una composizione un po’ improvvisata, che contengono un implicito giudizio ammirato e positivo nel primo caso quanto negativo nel secondo. Quando parliamo di musica improvvisata includiamo, sotto questa definizione, numerose e diversissime tecniche esecutive e interpretative appartenenti ad aree culturali spesso totalmente estranee fra di loro, e che talvolta poco o nulla hanno a che vedere con la creatività del musicista. Restando alla definizione con connotazioni moralmente positive, si parla di improvvisazione nella musica di tradizione popolare, nel jazz, nella musica contemporanea aleatoria, nel rock, nella musica cosiddetta etnica, popolare o colta che sia, nella prassi esecutiva rinascimentale e barocca e così via. Poiché non sono molti i punti in comune fra le varie tecniche improvvisative di tutte queste espressioni musicali, nasce il fondato sospetto che si tenda a etichettare come improvvisata ogni esecuzione che faccia a meno della partitura scritta. *** *** *** Da circa due secoli, per ragioni storiche e sociali ben precise, la nostra cultura musicale si è decisamente trasformata in modo da privilegiare la scrittura: per definire partiture d’orchestra, per stilare manuali e metodi, per divulgare edizioni. In questo modo anche l’educazione e la formazione musicali hanno assunto connotati sempre più “visivi”, e la stessa composizione ha risentito delle caratteristiche e dei limiti della scrittura. Quello che con la nostra stenografia musicale non può essere scritto, darwinianamente si atrofizza sempre più. Così la scrittura musicale, da indispensabile mezzo di diffusione, è diventata anche un condizionamento per la creatività. Sembra così naturale oggi, parlando di musica, immaginare un pentagramma con note e pause ben definite, ma dovremmo tener conto del fatto che la musica europea o, meglio, eurocentrica, è l’unica fra tutte le culture del mondo a presentare una scrittura così precisa e meticolosa. Si comprende quindi la tendenza a parlare, nel bene e nel male, di improvvisazione quando ci troviamo di fronte a qualcosa di non trascrivibile. Allora come si può definire l’improvvisazione? Questa è quella che gli anglofoni chiamano a good question, cioè una buona domanda a cui non si può rispondere tanto facilmente. *** *** *** La nostra tradizionale critica romantica, ancora ben presente, tende a farci immaginare il genio puro come una specie di Spirito Santo che con il suo raggio illumina la mente e stimola la creazione assoluta. In realtà, il meccanismo creativo nell’improvvisazione è ben più articolato e complesso. Citando Misha Mengelberg, preferirei la definizione di instant composition. Il riferimento ironico a un prodotto liofilizzato che, a contatto con l’acqua, riprende il suo stato fisico originario, è volutamente dissacrante, ma contiene una buona parte di verità. Il bagaglio espressivo e creativo si forma su percorsi e meccanismi della memoria che alimentano, giorno dopo giorno, il patrimonio culturale di ognuno di noi. I materiali musicali 41

Albert Hera IMPROVVISAZIONE \"Ciò che è arte non può stare nella paura\" Questo saggio, da intendersi maggiormente come testimonianza o confessione, è nato nell’arco di una notte sotto forma di sogno. Nel sogno, ben si sa, la mente lavora per associazioni spesso illogiche, inconsce. Si può dire che è proprio mentre dormiamo che il nostro intelletto è teso, come un arco, verso il grande campo dell’improvvisazione. Per questo motivo, il qui presente non è altro che un atto improvvisativo - mi piace credere – in grado di generarsi con queste pagine e di espandersi con voi. Comprendere l’improvvisazione è di vitale importanza. Lo è non solo ai fini di un percorso scolastico e musicale, ma anche per una visione della vita e della quotidianità. E allora, la prima domanda da porsi mi pare ovvia: perché è importante improvvisare, oggi? È importante perché l’improvvisazione è l’elemento chiave che ci permette di comprendere due cose: la libertà e l’incapacità. La libertà è il primo elemento che dobbiamo ricercare, desiderare e, ancor di più, comprendere per lasciarci invadere. È il grande campo nel quale ci muoviamo, senza direzioni che ci indichino la via, quindi il presupposto ideale per dare origini all’espressività. L’incapacità è il suo limite, che è anche il nostro. Il limite che fa da confine, oltre il quale la libertà non può sfociare affinché non venga meno il concetto di rispetto dell’altro. Il limite che ci vede uomini capaci di distruggere la libertà nel momento in cui ci priviamo della parola “improvvisazione”. Attenzione: l’improvvisazione potrebbe essere vista come una parola negativa, per certi versi, perché oggi ci insegnano che non si può improvvisarsi, bisogna essere sempre perfetti, all’altezza, quelli che non sbagliano mai. Eppure, c’è un segreto vitale dietro il concetto che stiamo analizzando, e cioè che lo sbaglio è il fondamento che sta alla base di ogni vero apprendimento. Sbagliare, e quindi ricercare lo sbaglio affinché si corregga, è il primo passo che ogni improvvisatore deve avere nella sua valigia degli attrezzi. Nell’improvvisazione, infatti, che sia musicale o ancor di più eseguita con la voce, si dovrà sostare alla legge del “BOH”, la grande divinità dell’imprevisto che ti dà la chiave per farti scoprire che in ogni cosa c’è la bellezza. Non bisogna aver paura dell’errore. Come diceva Samuel Beckett: “ho sempre tentato. Ho sempre fallito. Non discutere. Prova ancora. Fallisci ancora. Fallisci meglio.” Da un errore può nascere un’invenzione, come ci insegna anche Edison, che prima di arrivare all’invenzione della lampadina ha provato e riprovato millenovecentonovantanove soluzioni diverse. Non bisogna avere paura di questo: ciò che è arte non può stare nella paura. E allora perché studiamo per improvvisare una cosa perfetta? Dico sempre a me stesso: improvvisare vuol dire scoprirsi imperfetti ma allo stesso tempo geniali e unici. Improvvisare e sbagliare sono un valore aggiunto affinché la tua unicità, la tua grandezza possa esprimersi e nel tempo migliorarsi; far sì che il tuo lato creativo diventi un’arte espressiva capace non tanto di mostrare quello che sei, ma di tirare fuori, in modo maieutico, quello che la tua anima vuole esprimere. L’imprevisto e quindi l’errore sono un mistero. E ci fanno scoprire, paradossalmente, che 47

GeGè Telesforo L'IMPROVVISAZIONE È IMPROVVISATA? La prima domanda che rivolgo agli studenti che incontro in occasione delle mie Master Class in scuole di Musica e nei Dipartimenti Jazz dei nostri Conservatori, è la seguente: “Perché i Musicisti odiano i Cantanti?” Questa provocazione scatena naturalmente reazioni diverse, che portano gli adepti a replicare, a volte con il sorriso, molto spesso con una rabbia feroce. I Musicisti presenti, dall’alto della loro presunta preparazione tecnica e teorica, non esitano a elencare le lacune che, purtroppo, i Cantanti meno preparati evidenziano anche in scena durante le performance live. “I Cantanti si concentrano solo sull’esposizione melodica dimenticando accordi e intervalli. Molti non hanno il senso dello swing, non conoscono i ritmi e sono spesso “squadrati”. Alcuni non sanno staccare il tempo. I Cantanti, invece di concentrarsi sull’interplay con la band pensano solo alla loro voce e a farsi belli con il Pubblico. E poi non sanno improvvisare!”. E così via. Un disastro. I cantanti più sensibili, ammettendo le loro responsabilità, ricordano ai colleghi Musicisti che la Voce è lo strumento primordiale, interno e delicato, costantemente sottoposto a condizionamenti esterni, climatici e ambientali, ma anche fisici e umorali. La replica più interessante e profonda, quasi illuminante sul rapporto fra Cantanti e Musicisti, me la diede però un giovanissimo interprete “neo-melodico” della provincia di Napoli, che certamente non sapeva nulla del sottoscritto, di jazz, swing, improvvisazione scat e di Musica in genere: “I Musicisti odiano i Cantanti perché i Musicisti so’… strunz!”. Rotto il ghiaccio, a questo punto della lezione faccio notare ai presenti che fra i migliori cantanti della storia del Jazz si annoverano molti musicisti. Louis Armstrong, the King of Jazz, trombettista e strepitoso cantante riconosciuto come il primo scatter della discografia jazz. Chet Baker, James Moody, Dizzy Gillespie, Clark Terry, George Benson, per citarne solo alcuni. Il pioniere del Vocalese Jon Hendricks e il formidabile Mel Tormè, Artisti che hanno fatto la storia dell’improvvisazione vocale jazz, e a volte erano anche ottimi batteristi. Artisti che in molti casi non avevano frequentato scuole di canto e studiato tecnica vocale, ma che spesso, in concerto e nei loro album, utilizzavano la voce con estrema disinvoltura e gioia per cantare temi o proporre assoli scat che divertivano parecchio il pubblico. Quindi, se i Cantanti per superare i loro gaps dovranno cimentarsi anche con lo studio di uno strumento, i Musicisti dovranno fare i conti con la loro vocalità. D’altra parte, se gli assoli più belli della storia del jazz sono definiti “cantabili”, un motivo ci sarà. Per un bravo cantante contemporaneo è fondamentale conoscere i meccanismi anatomici che regolano e mettono in funzione le corde vocali, educare la voce con uno studio sano e attento, facendo vocalizzi quotidiani per allenare il proprio organo-strumento così come uno sportivo prepara il suo fisico a una competizione. Quindi, è indispensabile conoscere, frequentare e suonare uno strumento, magari armonico come il pianoforte o la chitarra, fare ear-training e distinguere gli intervalli, scoprendo così il magico mondo dell’Armonia per improvvisare e liberare con consapevolezza la propria personalità creativa. 51

Maurizio Franco LE LIBERTÀ DEL JAZZ Il jazz è un genere musicale specifico, colto e originale, che combina in modo singolare aspetti visivi e oralità, composizione e libertà di espressione, dando vita a un’arte performativa la cui natura è definibile con la parola audiotattile1. Questo scritto vuole quindi far luce su quelle che sono le libertà di cui il jazzista può disporre e tra le quali l’improvvisazione è solo una possibilità, nemmeno imprescindibile, nonostante nell’immaginario collettivo il jazz venga spesso identificato come “musica improvvisata”, termine che nel corso dei decenni si è rivelato decisamente fuorviante, portando a evidenti distorsioni nella sua lettura storica e nell’analisi della sua estetica. In sostanza, si è assegnato a questa musica un concetto di libertà espressiva di tipo romantico, nel quale il genio individuale si erge sopra tutto e tutti indicando ipotetiche strade nuove, contribuendo così a far nascere le figure messianiche degli improvvisatori capiscuola, quelli che decidevano le vie del futuro, ritenute valide per tutti in ogni parte del mondo, esaltando e rendendo centrale “l’assolo improvvisato”, anche quando di improvvisato non aveva nulla. Non a caso “assolo” è quasi sempre considerato sinonimo di “improvvisazione”, nonostante i due termini siano tutt’altro che identici nel significato. A fare le spese di questa distorsione, a cui si aggiunge talvolta la stravagante idea che il jazz sia musica di “tradizione orale” e non una sintesi tra procedure scritte e pratiche performative basate sull’oralità, è stata, in primis, la composizione, spesso ignorata o non compresa nella sua importanza, con il risultato che raramente chi non si occupa di jazz, ma pure moltissimi che lo amano e lo ascoltano, ha compreso l’importanza dei compositori, persino dei più importanti, criticando per decenni quelle opere considerate “troppo ambiziose” o “fuori dalla portata” del jazzista, almeno rispetto ai parametri consueti: la musica eurocolta, in particolare quella dell’Ottocento. Eppure, la composizione jazz ha peculiarità che le sono proprie, non è in nessun modo riducibile all’ambito europeo, segue altre strade, è conscia di dover convivere dialetticamente con il modo in cui verrà affrontata nella performance e ha così dimostrato una varietà di forme, strutture, articolazioni che sono state, non certo a caso, gli ambiti nei quali hanno potuto crescere stili e tendenze. Infatti, se provassimo a leggere la storia del jazz come relazione tra performance e forme compositive, ci accorgeremmo facilmente dell’importanza di queste ultime e della loro stretta relazione con i linguaggi, solistici e improvvisativi, maturati sino a oggi. Il predominio dell’idea individualistica ha avuto, però, un altro aspetto negativo, cioè quello di non considerare il jazz come “musica collettiva”, nella quale il solista-individuo trova un modo creativo di esprimersi all’interno di un contesto contrassegnato dalla presenza di altri musicisti. Questa idea di “conversazione in musica” è talmente forte che spesso i musicisti che suonano da soli costruiscono un ipotetico dialogo con se stessi oppure, se in gruppo, creano le loro frasi con un senso narrativo di tipo teatrale, come se stessero realizzando un dialogo immaginario. Se, per esempio, ascoltassimo Charlie Parker pensando a una conversazione a più voci ci accorgeremmo che di frequente usava frasi in successione costruite su registri di altezze diversi e con figurazioni ritmiche differenti, dando l’idea di mettere in scena più soggetti 1 In tal senso rimando anche al saggio di Vincenzo Caporaletti contenuto in questo stesso volume e, per approfondimenti ulteriori, a Vincenzo Caporaletti: Introduzione alla teoria delle musiche audiotattili (Aracne, Canterano, 2019); Maurizio Franco: Oltre il mito – scritti sul linguaggio del jazz (LIM, Lucca 2012). 55

CONTRIBUTI MUSICALI Sezione Strumentale Sezione Vocale

- Sezione Strumentale Andrea Andreoli SWING WITH ME L’improvvisazione su un giro armonico deve poter funzionare anche senza accompagnamento alcuno. Un ottimo esercizio sarà quindi quello di improvvisare facendo sentire tutti i cambi d’accordo che si incontrano lungo la struttura attraverso l’uso di arpeggi e scale, avendo cura di far cadere le note dell’accordo sui tempi forti della battuta. Con l’aggiunta poi delle estensioni (none, undicesime, tredicesime) e dei cromatismi (enclosures, approcci cromatici) ci si avvicinerà sempre più al linguaggio del be bop. Anche l’andamento del fraseggio è importante ai fini di un assolo omogeneo e funzionale. Credo che l’immagine di una sinusoide renda l’idea di come dovrebbero muoversi le frasi durante lo sviluppo dell’assolo. Diversamente, un assolo fatto da frasi solo ascendenti o solo discendenti o con movimenti intervallari ampi e improvvisi, tenderà a rendere il fraseggio troppo duro e lontano dagli stilemi tipici del jazz. F maj7 G min7 C 7 F maj7 Bbmin7 Eb7 & b 44 ‰ œjœ œ œ œ œ œ œ nœ bœ œ œ œ #œ œ œ œ œ ‰ œjœ œ bœ bœ œ œ œ œ ‰ œj Amin7 Ab7 G min7 C 7 F maj7 Abmin7 Db7 & b ‰nœ œnœbœ œ œ œ œ œ œbœ œbœ œ œ œnœ œ œ œ œ œ œ bœ bœ œ œbœ Œ Gbmaj7 Abmin7 Db7 Gbmaj7 Bmin7 E 7 & b ‰ Jœ bœ bœ ‰ Jœ œ bœ ‰ bJœ bœ bœ œ nœ ‰ bœj Œ bœ bœ œ bœ bœ nœ œ nœ œ bœ œ bœ nœ Bbmin7 A7 Abmin7 Db7 Gbmaj7 Amin7 D7 & b bœ œbœnœ œbœnœ bœbœbœbœ œbœ Œ ‰bœbœbœ œ œ œ œ nœ nœnœ#œ œ œnœ 65

Sezione Strumentale - Tony Arco IMPROVVISAZIONE TONALE Nell’improvvisazione tonale, il batterista si trova davanti a un’interessante sfida, ovvero quella di dover seguire una sequenza armonica non potendo contare sulla relazione melodia- armonia. Questa relazione (che in altri contesti può esser vista come vincolante) è in realtà una vera e propria guida per il solista melodico, il quale può fruire di strumenti basici quali arpeggi e scale relative per poter costruire il proprio fraseggio. In realtà, gli assoli più efficaci sono quelli che riescono a coniugare meglio aspetto melodico e ritmico, proponendo intervalli funzionali su ritmi altrettanto appropriati, creando così un binomio vincente. Quando fraseggio sugli accordi, sia nell’accompagnamento che solisticamente, la mia modalità di pensiero è analoga, nel senso che penso per frasi melodiche, sebbene l’interfaccia udibile sia ovviamente il ritmo delle frasi che penso, e non le altezze specifiche. In particolare, durante l’accompagnamento tendo a creare dei riff, un po’ come i background delle big band, o anche dei turnaround che permettono a me e ai musicisti con cui suono di identificare il punto del brano nel quale mi trovo (quale chorus, in quale sezione). Ovviamente, a seconda dell’estetica del gruppo e i conseguenti riferimenti stilistici, questa modalità sarà più o meno esplicita, e quindi più o meno leggibile. BLUES ã 44 x x œx x x œx x x œx x œ œx x x œx x x œx x x œx x œ œx ã x x œx x x œx x x œx x œ œx x x x œx x x œx x x œx x x œ ≤ ãx x œx x x œx x x œx x x œx x œ œx x x œx x œ œx œx œx œx x œ 76

Sezione Strumentale - Silvia Bolognesi L’improvvisazione per me è la via più pura e sincera per fare Musica, soprattutto se si parla di improvvisazione radicale. L’ascolto e l’istinto del musicista (possibilmente affinati con lo studio) diventano quindi gli unici strumenti compositivi applicabili nell’interazione e la composizione estemporanea. Sebbene sia molto legata alla tradizione jazz, mi diverte e appassiona l’improvvisazione che va oltre i generi. Questo sicuramente influenza le mie composizioni; per alcuni aspetti assumono le forme legate a quelle della tradizione jazz, ma spesso cercano semplicemente di fornire un canovaccio per la performance, uno spunto per l’improvvisazione, soprattutto se pensate per large ensemble. 80

Sezione Strumentale - ORCHESTRA LAB 82

- Sezione Strumentale Gabriele Comeglio IMPROVVISAZIONE SU STRUTTURA ARMONICA Questo tipo di improvvisazione è strettamente legato alla logica degli accordi che si collegano tra loro. I grandi maestri in questo campo sono stati i boppers, che hanno portato l’arte della riarmonizzazione a livelli definitivi, segnando per sempre quello che è considerato il “vocabolario” dei jazzisti di tutto il mondo. Come un pianista classico non può considerarsi tale se non sa eseguire Mozart o Beethoven, anche i jazzisti devono possedere una completa padronanza di questo stile. Negli anni si è però sviluppato un linguaggio legato ad un tipo di armonia “non funzionale” che si propone di uscire dagli schemi abituali del cosiddetto II-V-I, consentendo di esplorare nuove sonorità e nuove possibilità. Ho cercato quindi di creare un brano dove, nonostante gli accordi cambino (ma non siano analizzabili “funzionalmente”), l’improvvisazione si serva di una semplice scala pentatonica usata con oculatezza. STRANGE CHORDS Abmaj7 G7sus4 F7sus4/Gb Bbadd9/D œj œ œ œ œ œ œ œ bœ œ bœ œ œ bœ œ œ & 44 ‰ œ œ œ bœ. œ œœú Eb7sus G min7 Dbmaj7 Bb7sus & Œ œ œ bœ œ œ bœ œ. bJœ œ œ œ œ. bJœ œ œ œ œ bœ œ œ ú 5 F min7 G min11 Abmaj7 F add9/A & œ. œj ú œ œ bœ œ ú œ œ bœ œ œ bœ œ œ w 9 101

- Sezione Strumentale RARO MOLTEPLICE 111

- Sezione Vocale Ada Montellanico L’improvvisazione è raccontare una propria storia e se dovessi provare a sintetizzarla in poche parole la definirei semplicemente come “la reazione a uno stimolo sonoro”. Essendo una reazione implica molti fattori: lo stato del momento e il rapporto con gli altri che normalmente sono i musicisti con cui si suona. Per reazione intendo un’azione creativa dell’individuo che risponde a uno stimolo che può essere rappresentato dalla struttura di un tema musicale che assume vari significati a seconda del momento in cui si suona. Per questo ogni improvvisazione in quanto atto compositivo estemporaneo è diversa, perché mai saremo uguali a noi stessi, attimo dopo attimo. Lo stesso brano può evocare vari sentimenti, ogni volta differenti come ogni volta sarà differente il rapporto che si stabilisce su un palco con gli altri musicisti nella esecuzione dello stesso. Imprescindibile avere una preparazione, fatto ben sintetizzato dalla famosa frase del grande Giancarlo Schiaffini: “L’improvvisazione non si improvvisa”, a dimostrazione che si deve raggiungere un grado di consapevolezza se si vuole intraprendere questa strada, ma allo stesso tempo se si esclude che questo atto sia la ripetizione di cliché più o meno acquisiti negli anni di studio, il musicista dovrà predisporsi al rischio nell’esplorazione di se stesso ed esporsi a un profondo ascolto interno nel rendere suono, melodia, ritmo la propria narrazione musicale, come allo stesso tempo sarà importantissimo un ascolto attento dei propri compagni di viaggio che possono nell’esecuzione dare input tali da modificare l’atto creativo estemporaneo. Per quanto riguarda la voce, l’approccio è uguale a quello strumentale, ma quello che potrebbe rendere l’improvvisazione qualcosa di diverso sono le parole. Si può improvvisare sul testo, sul suono di una parola senza usare quello che viene chiamato normalmente scat. In questo senso un cantante ha maggiore ampiezza di scelta perché possiede nella sua natura una doppia possibilità, l’approccio puramente sonoro e l’approccio testuale. Entrambi sono a servizio dell’improvvisazione come narrazione personale che sarà tanto più originale quanto più si correrà il rischio di lasciarsi andare per esprimere la propria interiorità in stretta relazione al materiale sonoro e ai musicisti che partecipano all’evento creativo. In fondo improvvisazione e interplay rappresentano storicamente le colonne portanti del linguaggio jazzistico e ne costituiscono il nucleo fondante. IMPROVVISAZIONE SU STRUTTURA ARMONICA Da Quando (A. Montellanico - L. Tenco), dal Cd Danza di una ninfa (Egea Records) L'approccio improvvisativo è legato al movimento armonico e alle note in relazione a questo. Imprescindibile per me un approccio cantabile e per questo ho preferito nella sua semplicità partire da una cellula melodica e svilupparla nella progressione degli accordi reiterando in parte la costruzione della frase e modificandola in relazione all’armonia che cambia. Potremmo definirla una “improvvisazione motivica”. Necessario nella semplicità di una improvvisazione privilegiare l’intenzione espressiva, il timbro vocale, il legato della frase e gli accenti utilizzati che potrebbero cambiare radicalmente il senso della melodia stessa, ma soprattutto la consequenzialità di un discorso per frasi che, 245

Sezione Vocale - Walter Ricci Per un cantante, l’improvvisazione vocale è la pratica più importante per muoversi dentro gli accordi e scoprirne ogni colore e tensione. É il percorso giusto per chi vuole approfondire il senso ritmico, e pulsante, dello swing nonché degli stili derivati. Imitando le grandi orchestre, e gli assoli dei giganti del jazz, scolpiti negli intramontabili standard, il fruitore può arricchire le proprie informazioni melodiche e ottenere una grande ispirazione in fase di composizione di una nuova melodia. BLUES SOLO Bb7 Eb7 Bb7 B b 7( # 5) & bb 44 ≈ Rœ œ œ bœ œ bœ œ œ Œ œj œ œ œ œ Œ 3 œbœ œ œnœ œ œ œ bœ nœ bœ œ Eb7 Œ ‰ œj œ œ bœ œ œ bœ œ Bb7 D min7(b5) G 7(#5) & bb nœj bœ œ bœ œ œ œj œ œ bœ œ œ œ œ œ ≈ œ C min7 3 Bb7 G 7(b9) C min7 F7 ~œ~~~~ 3 & bb #œ œ ≈ œ œ F7 b œ œ œ. Ó œ œ nœ œ bœ œj œ bœ bœ œ nœ œ Bb7 bœ œ œ œ œ œ nœ~E~b~7 ≈ bœ œj œ œ œ œ œbœ Bb7 F min7 Bb7alt & bb ≈ nœ œ œ bœ nœ nœ nœ œj œ œ. œ œœœ œ bœ. Eb7 3 3 Bb7 3 & bb bœ œ œ bœ bœ œ. E `7 n œj œ œ œ œ D min7(b5) G7alt œ œ œ ≈ œ œ œ œ œ nœ œj bœ œ œ Œ œbœ œ œ œ nœ C min7 F7 Bb7 G 7 C min7 F7(b9) Bb7 & bb 3 3 3 nœ nœ œ.bœœ ŒÓ ‰ œbœ œbœnœbœbœ œ œ #œ œ œ œ œ. œ bœ bœ œ bœ œj bœ œ œ œ 248

Riccardo Scivales L’IMPROVVISAZIONE È VERAMENTE IMPROVVISATA?* Appunti sull’improvvisazione pianistica jazz dalle origini al Bebop Col suo meraviglioso e consueto entusiasmo, durante la lavorazione di questo libro il M° Intra mi ha chiesto di scrivere (come fosse una cosuccia da nulla) un capitolo aggiuntivo che rispondesse alla bella domanda “L’improvvisazione è veramente improvvisata?”, intesa a capire se l’improvvisazione jazzistica sia una creazione davvero estemporanea, frutto esclusivo della cosiddetta “ispirazione” e dell’estro del momento, oppure un qualcosa che in qualche modo è preordinata (a vari livelli) in anticipo. Una domanda per così dire “da un milione di dollari”, e che potrebbe scuotere secolari certezze dell’immaginario collettivo del jazz. E una domanda che in realtà ha numerose risposte, in quanto esistono vari approcci all’improvvisazione, che dipendono anche dalle epoche e gli stili jazzistici, dai musicisti, e dagli strumenti da loro suonati. Inoltre, come è noto l’improvvisazione cambia a seconda del contesto nel quale si svolge: tonale, modale, free, o un mix di questi, ecc. Per quanto possibile, in questo capitolo tenteremo di rispondere a questo bel quesito, specialmente riferito al pianismo jazz dalle origini al Bebop. Per iniziare, ci pare importante sottolineare subito una cosa tanto ovvia quanto fondamentale. A differenza degli strumenti monodici, il pianoforte (strumento polifonico per eccellenza) presenta un onere in più. Il pianista, infatti, deve suonare contemporaneamente melodia, armonia, e spesso anche i bassi. E come se questo non bastasse, deve “tenere insieme” il tutto anche dal punto di vista ritmico. Per fare una similitudine, il pianista jazz che suona con un complesso approccio “a due mani” (specialmente in piano solo, e con lo sfruttamento completo della tastiera) è un po’ come un auriga che tiene in mano le redini dei quattro cavalli di un cocchio, nel senso che egli deve tenere contemporaneamente a bada quattro cose, che non si fermano mai: i bassi, il ritmo, l’armonia e la melodia. Non è un compito da poco, ed è un approccio molto diverso da quello richiesto agli strumenti monodici. Altra cosa importante, va inoltre considerata la differenza tra il pianismo jazz tradizionale (generalmente basato su questo complesso approccio “a due mani”) e quello moderno, inaugurato dal Bebop (con importanti antecedenti in Ellington e Basie), in cui il lavoro maggiore è svolto dalla mano destra, con la sinistra che spesso accompagna in modo scarno, ”punteggiando” ritmicamente gli accordi. Infine, naturalmente c’è una grande differenza tra il suonare in un contesto di piano solo o di ensemble, situazione quest’ultima che indubbiamente lascia maggiore libertà al pianista, “sgravandolo” generalmente dagli onerosi compiti di esplicitare la ritmica e portare i bassi.1 Detto questo, nella mia esperienza di ascoltatore e di trascrittore di brani pianistici jazz ho potuto notare che in molte incisioni dei più grandi maestri di varie epoche e stili troviamo spesso la permutazione e magistrale rielaborazione estemporanea di idee preesistenti, con ogni evidenza concepite e già accuratamente “esplorate” in anticipo. Come avviene probabilmente con tanti altri strumentisti jazz, naturalmente anche i pianisti hanno un proprio bagaglio di 1 E in ambito Pop/Rock, qualunque tastierista che si sia trovato a improvvisare con la mano destra (mentre la sinistra non suona, o suona come accompagnamento dei lunghi bassi o dei semplici accordi tenuti) ha potuto sperimentare l’infinita (e assolutamente fantastica) libertà di improvvisazione “estemporanea” determinata da questo approccio. 272

Riccardo Scivales ART TATUM, L’INARRIVABILE GIOCOLIERE DELL’IMPROVVISAZIONE Come altri jazzisti, anche l’immenso Art Tatum ricorreva spesso a figure particolari e precostituite, di sua invenzione, che anzi erano parte integrante e funzionale del suo linguaggio improvvisativo. Ciò che è stupefacente è come questo titano della musica rielaborava continuamente queste sue frasi—chiamate in gergo “runs”—e dava loro una forma sempre nuova variandone gli attacchi, le risoluzioni o dei passaggi, cambiandone i ritmi, combinandole con altre runs, ecc. In tal senso, egli fu uno sbalorditivo e caleidoscopico “giocoliere della musica”. E non solo questo. Andando oltre all’aspetto più virtuosistico e appariscente delle sue incisioni, infatti, non si insisterà mai abbastanza sul fatto che egli fu un musicista in anticipo di almeno un decennio sul jazz dei suoi tempi. Nelle note di copertina del LP Pieces of Eight, Arnold Laubich ha scritto che le volate melodiche a note singole di Tatum anticipano Charlie Parker, e forse anche Coltrane. E secondo il pianista Dick Hyman, le innovazioni armoniche dei boppers erano semplicistiche rispetto a quanto faceva Tatum1. Del resto, un Charlie Parker diciottenne seppe riconoscere subito la grandezza e l’importanza di Tatum, tanto che nel 1938 lavorò per tre mesi nella cucina di un ristorante di Harlem solo per poterlo ascoltare attentamente in piano solo e assimilarne il linguaggio. Bud Powell disse che, quando suonava le ballads, Tatum gli “guidava le mani”, Charles Mingus una volta affermò che (contrariamente all’opinione comune) Tatum era stato “ancora più importante di Charlie Parker”, e Sir Roland Hanna riteneva che Tatum fosse stato più importante ancora di Louis Armstrong e Bix Beiderbecke per “gli sviluppi del jazz a venire”2. Com’è noto, nonostante tutte queste qualità l’approccio improvvisativo di Tatum è stato talvolta criticato. Prendendo come pretesto il fatto che egli registrò varie versioni molto simili tra loro dei suoi famosi “arrangements” pianistici, alcuni critici e storici del jazz hanno infatti affermato che egli non fu un vero e proprio improvvisatore jazz, spontaneo ed autentico. Una conclusione, questa, alquanto frettolosa e disattenta, ignara di tanti altri aspetti della discografia e dell'arte immensa di questo musicista, e probabilmente influenzata dal fatto che le sue virtuosistiche runs sono talmente appariscenti (ed eseguite a velocità prodigiose) che l’ascoltatore comune, il critico musicale e anche molti musicisti ne riescono a percepire solo gli aspetti più esteriori e superficiali. Noi pensiamo invece che per rendersi conto almeno un po’ dell’infinita grandezza di Tatum, i suoi detrattori dovrebbero ascoltare i suoi brani a velocità rallentata, così da cogliere tutta la varietà di queste runs e delle loro varianti estemporanee, e prestare più attenzione anche a quanto egli suonava tra queste runs. In tal senso, sempre Dick Hyman ha giustamente osservato che Tatum “combinava il vocabolario di base delle sue runs e delle sue scale in modo che esse non suonassero mai come degli esercizi tratti da un manuale, e la sua improvvisazione lineare si sviluppava partendo dalla sua 1 In Dick Hyman, Piano Pro, Katonah, New York, Ekay Music, 1992, p. 26, dove Hyman scrive testualmente: «[…] the advances in harmony of the boppers were simplicistic compared to Tatum’s usage.» 2 Tutte queste affermazioni (e le loro fonti) sono riportate nel capitolo Art Tatum e le ”pentatoniche”, a pag. 116-120 del mio libro Storie di Vecchi Pianisti Jazz… e di come funzionava la loro musica (Venezia, Scivales Music, 2020). 282

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GLI ARTISTI E GLI STUDIOSI CHE HANNO PARTECIPATO 329

Andrea ANDREOLI Si diploma in Trombone presso il Conservatorio “G. Verdi” di Como, sotto la guida dei Maestri Pierluigi Salvi e Fulvio Clementi. Consegue il diploma di II livello in Trombone jazz presso il Conservatorio Verdi di Milano sotto la guida di Giovanni Falzone. Vince il concorso per primo Trombone presso la Norrbotten big band (Svezia). Tra le collaborazioni di spicco vi sono quelle con: WDR Big Band, Incognito, Maria Schneider, Vince Mendoza, Fred Hersch, Lew Soloff, Bob Mintzer, Bill Laurence, Randy Brecker, Erich Marienthal, Mike Mainieri, Dave Weckl, Enrico Rava, Enrico Intra, Tino Tracanna. Ha inoltre suonato in importanti festival come il London Jazz Festival, Torino Jazz Festival, Bergamo Jazz, Bulach jazz festival, Malta Jazz Festival, Freiberg Jazz Tage e molti altri. Vanta numerose collaborazioni discografiche a livello nazionale ed internazionale tra cui: WDR Big Band, Fred Hersch, Vince Mendoza, Bob Mintzer, Bill Laurence, Enrico Intra, Norrbotten Big band, Vein Trio e la Nomination ai Grammy Awards 2020 con l’album Begin Again di Fred Hersch e WDR Big Band. Insegna Trombone jazz presso i civici Corsi di Jazz di Milano e il Conservatorio Verdi di Milano. Claudio ANGELERI Studia con il M° Aldo Sala perfezionandosi successivamente in pianoforte, composizione e arrangiamento in Italia e negli Stati Uniti con Mark Levine, Cedar Walton, Jaky Byard, Paul Bley, Giorgio Gaslini. Si laurea in architettura al Politecnico di Milano. Consegue il Diploma in Pianoforte Jazz alla University of West London a pieni voti e la certificazione Grade 8 in Keyboards al Trinity College London. Inizia l’attività concertistica nel 1974 e da allora sono innumerevoli i festival, nazionali e internazionali, a cui ha partecipato, suonando e incidendo con, tra i tanti, Gabriele Comeglio, Charlie Mariano, Steve Lacy, Jerry Bergonzi, Bobby Watson, Franco Ambrosetti, Bob Mintzer, Herb Pomeroy, Mike Richmond, John Riley, Kenny Wheeler, Sarah Jane Morris, Franco Cerri, Massimo Urbani, Gianni Basso, Tony Scott, Heiri Kaenzig. Ha inoltre collaborato con Giorgio Albertazzi e con il poeta Lawrence Ferlinghetti per il festival di Notti di Luce e ha portato in musica testi di Italo Calvino. Vanta una discografia a proprio nome di 20 titoli, ha pubblicato due testi di didattica pianistica e scritto saggi e articoli tecnici su riviste italiane e straniere. Direttore artistico di rassegne musicali, tra cui Notti di Luce, è fondatore a direttore del CdpM di Bergamo, struttura di didattica musicale di livello internazionale. Tony ARCO Avviato allo studio dello strumento dal Maestro Lucchini, a sedici anni Tony Arco incontra Tullio De Piscopo, con cui studia per alcuni anni, instaurando un profondo legame d'amicizia, parallelamente all’inizio della sua vita professionale che ha nel club Capolinea e nel gruppo di Piero Bassini il suo punto di partenza. Trasferitosi negli USA, diventa il batterista del mitico \"Wally's Jazz Club\" di Boston, dove suona nei gruppi di Roy Hargrove e di Antonio Hart e con tanti altri musicisti, tra i quali John Medesky e George Garzone. Al suo ritorno in Italia suona con i gruppi di Gigi Cifarelli, Mario Rusca e Antonio Faraò, e nella Big Band di Demo Morselli, partecipando al \"Maurizio Costanzo Show\". Il 1995 segna l'incontro con Enrico Intra e Franco Cerri, che gli offrono la cattedra di docente ai prestigiosi Civici Corsi di Jazz di Milano, oltre al ruolo di batterista nella Civica Jazz Band e di direttore del gruppo di percussionisti Time Percussion, ensemble stabile della scuola. Oggi Arco è considerato unanimemente un punto di riferimento della didattica oltre ad essere coinvolto in collaborazioni artistiche ai massimi livelli del jazz italiano e internazionale. Le collaborazioni concertistiche includono Mark Murphy, Bobby Watson, Kenny Barron, Charles Tolliver, Tony Scott, Dave Liebman, Enrico Pieranunzi, Franco D'Andrea, Enrico Rava, Paolo Fresu, Franco Ambrosetti, Roberta Gambarini, Marcus Stockhausen, Gianluigi Trovesi, e tanti altri. È membro della \"Montecarlo Nights Orchestra\" di Nick The Nightfly e collabora con le Big Band di Paolo Tomelleri e la \"J.W. Orchestra\" di Marco Gotti. Vanta una discografia di rilievo, con oltre ottanta cd registrati con grandi artisti italiani e internazionali. Ha pubblicato due metodi per batteria nella serie Master Jazz della BMG. 331

Silvia BOLOGNESI Contrabbassista, compositrice e arrangiatrice, diplomata in contrabbasso presso l'Istituto Franci di Siena, ha studiato ai corsi di Siena Jazz con Paolino dalla Porta, Furio di Castri e Ferruccio Spinetti. Gli incontri più significativi per la sua formazione musicale sono stati quelli con William Parker, Muhal Richard Abrams, Lawrence “Butch” Morris, Roscoe Mitchell e Antony Braxton. Leader di diverse band, fa anche parte del trio d’archi Hear In Now, con cui nel 2017 ha partecipato al progetto di Roscoe Mithcell “Omaggio a John Coltrane”. Ha inoltre suonato e inciso nell’Art Ensemble of Chicago 50th Anniversary Project. Dal 2010 ha dato vita alla propria etichetta discografica, la Fonterossa Records, da cui è nato nel 2015 il minifestival, ospitato da Pisa Jazz, “Fonterossa Day”. Ha collaborato con un gran numero di prestigiosi artisti italiani e stranieri delle più diverse tendenze stilistiche., da Stefano Bollani a Ken Vandermark, da Dee Alexander a Maria Pia De Vito. Nel 2010 ha vinto il Top Jazz, organizzato dalla rivista Musica Jazz, come miglior nuovo talento italiano e, nello stesso anno, il trofeo \"In Sound\" per la categoria contrabbassisti. Insegna contrabbasso e musica d'insieme all’Accademia Siena Jazz e tiene seminari sull'improvvisazione e la \"Conduction\". Vincenzo CAPORALETTI Vincenzo Caporaletti è il teorico che ha introdotto nel mondo musicale il concetto di “audiotattile”, rivoluzionando gli studi legati al jazz, ma con riflessi importanti anche sulla comprensione del pop, del rock, della world music e, persino, sull’analisi della musica eurocolta e delle sue varie epoche storiche. Professore di Musicologia generale e Musicologia transculturale presso l’Università degli Studi di Macerata, è anche direttore del Centre International de Recherche sur le Jazz et les Musiques Audiotactiles alla Sorbone Université di Parigi, oltre a dirigere varie collane editoriali scientifiche e riviste di musicologia. Tra le sue numerose monografie, che si aggiungono a saggi pubblicati sulle più prestigiose riviste musicologiche internazionali, occorre ricordare il fondamentale: I processi improvvisativi nella musica. Un approccio globale, il più completo studio esistente sulla prassi dell’improvvisazione nelle varie culture del pianeta; Esperienze di analisi del jazz; Swing e Groove. Sui fondamenti estetici delle musiche audiotattili; Introduzione alla teoria delle musiche audiotattili. Tra i suoi filoni di ricerca troviamo revisioni e trascrizioni di pagine importanti della storia del jazz con particolare riferimento a Jelly Roll Morton e Tiger Rag, a Django Reinhardt nella sua esecuzione swing del Concerto in re minore di Johann Sebastian Bach e alla libera improvvisazione dei due pianoforti di Enrico Intra ed Enrico Pieranunzi nel brano Bluestop. Ha inoltre insegnato Analisi delle forme compositive e performative jazz al Conservatorio romano di Santa Cecilia. Marcella CARBONI Arpista, compositrice, improvvisatrice e didatta, oltre alle tappe formative tradizionali, dal diploma in arpa classica alla laurea in jazz e allo studio della composizione, ha trovato la sua strada grazie a collaborazioni con nomi di punta della scena europea quali Bruno Tommaso, Rosario Giuliani, Enrico Intra ed Enrico Pieranunzi, che hanno voluto lavorare con lei spesso scrivendo composizioni pensate per il suo strumento o affidandole alcune delle proprie pagine. Se da una parte è stata influenzata dal jazz mainstream, dall’altra le esperienze con Butch Morris, con il Sonic Genome di Anthony Braxton o con il collettivo di improvvisatori Franco Ferguson hanno contribuito a sviluppare la sua anima di improvvisatrice radicale. La sua arpa elettroacustica è spesso al centro di trasmissioni televisive e radiofoniche, come “Piazza Pulita” su La7, “Storie Mondiali” su Sky Arte/Sky Sport e “Radio2 Social Club”. Dal vivo e in studio di registrazione ha fatto parte delle formazioni più varie, dal solo all’orchestra sino al trio con Paolino dalla Porta e Stefano Bagnoli. Da sempre in prima linea per l’affermazione dell’arpa come strumento capace di inserirsi a pieno titolo nell’ambito jazzistico, Marcella Carboni porta avanti da oltre dieci anni un’intensa attività didattica e divulgativa nei conservatori e nelle scuole d’arpa italiane ed estere. Un’esperienza che nel 2018 è culminata con la pubblicazione del manuale “Jazz Harp - a Practical Method” per la casa editrice americana Vanderbilt Music Company. 332




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