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Il Secretum di Petrarca

Published by ADRI.RUGGIANO, 2020-09-11 09:35:09

Description: Il Secretum di Petrarca

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Il Secretum Di Adriana Ruggiano I luoghi dell’anima di Francesco Petrarca Se oggi godiamo dei capolavori petrarcheschi, molto si deve alla figura di Lombardo della Seta. Copista e segretario del Petrarca, custode della sua memoria e opera, raccolse e riordinò le trascrizioni degli originali del Sommo, dopo la sua morte. Nonostante il suo corpo ebbe “illacrimata sepoltura”, citando Foscolo, perché condannato all’esilio a Venezia (Il corpo, sepolto nell'arca della piazza di Arquà sotto le spoglie del maestro, fu riportato a Venezia per ordine del Carrarese, non dimentico dell'adesione del D[ella Seta] alle sorti trionfanti del Conte di Virtù (cioè di Gian Galeazzo Visconti)”1, ; fu amico fedele del Petrarca. È, però, grazie al monaco fiorentino Tedaldo della Casa, se oggi, abbiamo il piacere di leggere questo percorso nell’anima petrarchesca. Nel 1378 il “Segreto” del Petrarca, infatti, fu trascritto dall’autografo, da questo monaco che, recatosi a Padova, trascrisse il capolavoro conservato, oggi, nel codice laurenziano, nei ff. 208-243. In tal modo, quel “dialogus” che Petrarca custodiva gelosamente, quasi per un dispetto del destino, diventava di carattere pubblico, trasformandosi in un’opera postuma, testimone del ritratto morale di un uomo prima che di un poeta. L’utilizzo del latino, tuttavia, e l’elaborata ricerca formale, il duro lavoro di labor limae fanno dubitare che fosse un libretto non destinata ai posteri: Petrarca non lasciava nulla al caso. Opera misteriosa sin dall’ipotesi di datazione (1353-1349-1347). Secondo Remigio Sabbadini, l’opera fu iniziata, trascorsi 16 anni dall’incontro con Laura, avvenuto il 6 aprile 1327 e, poi, divenne oggetto di rifacimenti e aggiunte varie, sino al 1347. Non è mistero che il 1342-43 furono gli anni della “presa di coscienza”, l’inizio della sua stagione riflessiva e, spesso dolorosa, a causa della morte di Dionigi da Borgo San Sepolcro e di Roberto d’Angiò che lo aveva incoronato nel 1341. Inizia, in questi anni, la fase matura, quel “guardarsi dentro” che portò ad un rinnovamento spirituale e all’intima adesione all’insegnamento agostiniano. L’animo di Petrarca aveva l’urgenza di una mutatio, di una conversione che lo preparasse alla vecchiaia, di una conquista data dalla meditatio mortis. Sin dall’inizio dell’opera, Petrarca esplicita subito il ruolo della stessa “non molto tempo fa ero assorto e pensavo con sgomento come faccio spessissimo, in che modo fossi entrato in questa vita e come ne sarei dovuto uscire”2. Sin da subito, a testimonianza dell’inizio del suo iter interiore, arriva una donna, la Verità, non a caso definita “Vergine”, perché di splendore inenarrabile e di bellezza inaccessibile all’umano intelletto. La Verità, nel suo essere Virgo, richiama, il senso ampio di pienezza e totale integrità non solo femminile, ma dell’intera umanità. Petrarca non possiede quell’integrità morale e, non a caso, non riesce a sostenere lo sguardo della donna perché di “intollerabile splendore”3. L’arrivo, nell’intimità della sua solitudine di un “vecchio di aspetto maestoso e venerando”4, ribalta la situazione. È Agostino, saggio che esige e merita venerazione, un vecchio amico che non ha bisogno di presentazioni, in quanto “l’aspetto sacerdotale, la modestia del volto, la serietà dello sguardo, la dignità del portamento, l’abito africano ma di 1 Emilio Pasquini, DELLA SETA, Lombardo, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 37, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1989, SBN IT\\ICCU\\CAG\\0013827. 2 “Attonito michi quidem et sepissime cogitanti qualiter in hanc vitam intrassem, qualiter ve forem egressurus” 3 “splendore terruerat”. 4 “virum iuxta grandevum ac multa maiestate venerandum video”

eloquenza romana” indicavano si trattasse del “padre”. Petrarca è presentato dalla Verità (a sua volta definita come dux, consultrix, domina)5, come “moribondo”, bisognoso di aiuto perché INCONSAPEVOLE del suo male. Agostino che aveva vissuto “pene simili” poteva guidarlo in questo percorso di guarigione, documentato da quel libretto che Petrarca aveva scritto affinché “evitasse di incontrarsi con altri, ben contento di rimanere con sé”. Libro I Il libro I inizia con una serie di domande, ben precise, che scuotono da subito l’animo di ogni uomo: Quid agis homuncio? Quid somnias? Quid expectas? Miseriarum ne tuarum sic prorsus oblitus es? An non te mortalem illa esse meministi?6. Da subito, quindi, viene ricordato a quell’ homuncio che non esiste nulla di più efficace della coscienza della propria infelicità e dell’assidua meditazione sulla morte, per disprezzare i valori vani di questa vita. Tuona quel te ipse decipias7 condannato a Francesco e, con lui, a tutti gli omuncoli mortali, così tanto insensati che fanno di tutto per estirpare dal petto quella salutiferam radicem che li avvicinerebbe alla virtù. Per quanto Agostino cerchi di “Tarditati tue mos gerendus est”8, Francesco non riesce a comprendere il suo male, perché sono molte le cose che si desiderano con ardore ma che, tuttavia, nessuna fatica ci procura e, dunque, Agostino gli regala il primo insegnamento: “qui miseriam suam cupit exuere, modo id vere pleneque cupiat, nequit a tali desiderio frustati”9, considerandolo un ragazzino tardo e, al contempo, sottolineando che i suoi studi condotti solo per ventosum vulgi plausum10, sono serviti a sanare solo la sua inanem iactantiam11 e non a comprendere, realmente, l’insegnamento dei saggi stoici, secondo i quali “sola virtus animum felicitat”12. Il primo passo per diventare consapevoli e, uscire dalla condizione umana di oblio, consiste, quindi, secondo Agostino, nel meditare sulla morte e sull’infelicità e, subito dopo, nel desiderio e nell’impegno all’ascesa. Un’ ascesa che implichi la maturata presa di coscienza che “in animis hominum perversa quedam et pestilens libido se ipsos fallendi”13, la quale è molto più pericolosa perché l’ingannatore non può essere separato dall’ingannato. Ergo: il peccato e l’infelicità sono atti, manifestazioni di volontà. Di qui, la prima presa di coscienza di Francesco che culmina nel secondo insegnamento Agostiniano: “ut ubi (ultra te non posse) dixisti (ultra te nolle) fatearis”14, facendo cenno a quando lui stesso, volendolo, sotto quel fico salutifero, si è trasformato in un altro Agostino, il convertito delle Confessioni. Né il mirto, né l’edera e né l’alloro sono stati cari alla sua anima, lo hanno salvato; quanto quel fico simbolo di correzione e perdono. Quel fico che ricorda a Francesco il suo stesso pellegrinare, nonostante lui si senta, rispetto al maestro, un naufrago e non un uomo che abbia raggiunto il porto sicuro. Ha desiderato più volte di uscire da quella condizione, senza mai ottenerlo. Da qui, prontamente, arriva il terzo insegnamento di Agostino, già tanto caro a Ovidio “velle parum 5 Consigliera, padrona e maestra 6 Che fai, omuncolo? Che sogni? Che aspetti? Ti sei dimenticato delle tue miserie? O forse non ti ricordi che dovrai morire? 7 Tu inganni te stesso 8 Adattarsi alla tua lentezza 9 Chi vuole spogliarsi della sua infelicità, purché lo voglia davvero, non può fallire tale obiettivo. 10 Effimero plauso del volgo 11 Vanitosa ostentazione 12 Solo la virtù fa l’animo felice. 13 C’è nell’animo degli uomini una tale perversa e pestilenziale libidine d’ingannare se stessi. 14 Là dove hai detto “non sono capace di andare oltre” dì piuttosto” non voglio andare oltre”.

est; cupias, ut re potiaris, oportet”15 e il conseguente approdo di Francesco ad una prima consapevolezza “vera esse que dicis”16. In questa frase vi è il momento di capovolgimento, quello in cui il malato inizia a rinsavire; il momento preciso in cui Francesco inizia il suo cammino di salvezza, il suo risveglio, il suo diventare ottimo senza più accontentarsi di non essere pessimo. Un momento di crescita che prevede un processo di distruzione, chiarissimo nelle parole di Agostino17, senza il quale è impossibile la metamorfosi. Un processo profondo, coraggioso, doloroso, catartico che implica un morire a se stesso, lasciare andare, perdere per ritrovare. Una salvezza che poco è amata da colui che l’ama con altre cose e non per se stessa; da colui che non è disposto a svuotarsi di tutto per ottenerla. Un cambiamento che ottiene solo l’uomo razionale che è disposto a ricordare, continuamente, a se stesso, che deve morire, che ha un corpo destinato a perdersi, ad ammalarsi a perire; precisa Agostino. Un pensiero costante della morte che implica non il semplice temerla ma il contemplarla, in modo assoluto, osservarla da vicino. Agostino stesso, con un’esplicita e cruda descrizione del corpo morente18, sottolinea che è necessario tremare, impallidire, al pensiero della morte, esserne sconvolto. Momento di passaggio da attraversare tra mille torture, realtà assoluta e inesorabile e non possibilità remota, da cogliere, pienamente, come travaglio, come condizione necessaria al processo di divenire, come unica relazione con l’esistenza autentica. Quella morte insita nel nostro nascere, nella nostra stessa condizione d’essere, è parte integrante di noi, ombra che accompagna i nostri passi. Una morte considerata, spesso, nemica, estranea ma che è viva in noi, ci conosce, viene con noi alla luce da quando ci auto- definiamo nel grembo materno. Nascere è un lento e inesorabile inizio a morire e Petrarca ne era consapevole. Iniziare a morire, quindi, è necessario per saper vivere. Così, quella navicella tremula e fragile e piena di falle che è la vita, muta e quel degrado ancorato alla nostra anima, quella mortifera mutevolezza si trasforma in consapevolezza, unico mezzo per giungere al Sommo Bene. Quei fantasmi che creano turbamento e, tra loro combattono senza sosta, determinano il dissidio interiore di un uomo che incarnava ed incarna, tutt’oggi, quel “male di vivere” o quel “vivere male”: condizione necessaria, prerogativa assoluta, caratteristica dell’essere umano. Libro II Dopo aver contemplato quella morte che “sola fatetur quantula sint hominum corpuscula”19, ci si inizia a guardare dentro, si penetra oltre la superficie fenomenica e oltre quello sguardo incrostato che, spesso, ci fa limitare a vedere e mai a guardare. In quel momento ci accorgiamo che siamo estranei a noi stessi, che non ci conosciamo, che siamo ingannati da quei lacci che ci tende il mondo. Questi beni vani solo, per Agostino, la superbia, l’avarizia, l’ambizione e Francesco viene accusato di essere detentore di tutti, a tal punto che ne risulta ferito, offeso, si divincola come può da queste accuse. È il malato che non coglie le proprie ferite e, così, Agostino diventa l’accusator e lui un infelix. Il problema umano sembra essere quello di “transitoria curatis, eterna negligitis”20, di non andare alla ricerca del necessario, ma del vano: stupefacente errore e miseranda cecità. Di qui la seconda presa di coscienza del limite, del finis umano: il bisogno. Agostino dice a Francesco che dovrebbe spogliarsi della sua umanità e non vivere più di bisogni, in quel “deus fias” vi è racchiuso tutto il significato della mutatio animi: diventare Dio, essere oltre l’umano, varcare il confine del limite e dell’impotenza della volontà. Sin dalla nascita l’uomo è condannato al bisogno, a 15 Volere è poco occorre bramare per raggiungere lo scopo. 16 Ciò che dici è vero. p.117. 17 Quam multa sunt ex quorum eversione conficitur (quante sono le cose che devi distruggere per crescere). 18 P.127. 19 Sola rivela quanta poca cosa siano i corpi degli uomini. 20 Curare l’effimero e trascurare l’eterno.

quell’intorpidimento dell’anima, a essere parte integrante di quella natura imperfetta che oscilla tra potenza e miseria. Se Francesco non è colpevole di gola e di ira lo è di lussuria, naufrago tra gli affanni e le tempeste determinate dalla passione che lo allontana, come l’Enea virgiliano, dalla contemplazione della divinità. La tremenda malattia che affligge, tuttavia l’animo del poeta è l’accidia, la aegritudo degli antichi, flagello che ghermisce l’uomo, tenacemente, che lo tormenta: la causa delle sue miserie. Questo male appare famigliare a Francesco, lo conosce, lo descrive, sa di esserne vittima e alla domanda esplicita di Agostino “male tibi esse arbitraris?21, Francesco, per la prima volta, risponde in modo netto “imo vero pessime”22. Un passo in avanti rispetto alla sua malattia, un ulteriore tassello inserito nella sua presa di coscienza. In quel “malissimo” vi è il grido di disperazione di tutta l’umanità che, rappresentata in Francesco, è pronta al cambiamento. In quell’accidia vi è l’afflizione per tutte le cose del mondo che risultano moleste. Tra tutte, la fortuna che, per l’uomo, è superba, violenta, cieca, capricciosa, rappresenta l’ostacolo più alto da superare, ma quando Agostino fa notare che è necessario guardare alla miseria dei vinti che sono dietro di noi, Francesco si dice scosso e confessa che “iam nec servum me nec inopem indigner”23. Guarda al mondo con cruda rassegnazione, con fastidio e ripone tutta la sua speranza in Dio “ita me deus ex hoc naufragio puppe liberet illesa, ut ego sepe circumspiciens in infernum vivens descendisse michi videor”24, aspettando la terza parte di quella che per lui fu una tripartita fatica. Libro III Nel terzo libro Agostino passa a trattare delle “intractabilia et infixa visceribus”25, ossia di quelle adamantinis cathenis che logorano l’animo del poeta e lo incatenano non dandogli modo di meditare né sulla vita, né sulla morte. Catene di diamante che affliggono il cuore ma, al contempo, lo seducono e circuiscono, perché di bellezza sfavillante: l’amore e la gloria. La domanda di Francesco sottolinea, in modo eloquente, la sua inconsapevolezza “has ne tu cathenas vocas, hasque, si patiar, excuties’”?26 e la risposta di Agostino preannuncia uno sforzo più grande, in quanto sa che Francesco si opporrà credendo di essere spogliato dei suoi beni più grandi e, per quello, lo considera miser perché non comprende che non è l’oggetto amato a determinare la gioia o il dolore dell’innamorato; ma è l’amore stesso che, spesso, ama in modo turpe anche le cose più nobili. Sin da subito, Laura è presentata come “quella”, come “donna mortale”, “donnetta” a riprova del fatto che il ruolo femminile e della donna cambiano, radicalmente, da Dante a Petrarca. Laura è una donna carnale, non più figura Christi: non si concede, resta inespugnabile e ferma e, in tal modo, salva e condanna l’animo del poeta. La bellezza fisica di Laura turba i sensi del poeta e il sentimento di caducità e peccato sono per lui ragione di tormento. Laura rappresenta la patria, la natura, la gloria, e tutte queste cose turbano il Petrarca inducendolo alla ricerca costante di un rifugio. La virtù di Laura, è diversa da quella di Beatrice, perché pur salvando il poeta dal peccato, lo induce all’insoddisfazione, al tumulto interiore. Ella è lontana, inarrivabile: guarisce l’io perché lo spinge ad introspezione, ma al contempo, lo condanna al tormento. Laura è donna carnale, inaccessibile, vanitosa e superba. Descritta, non a caso, in contesti naturali: cambia, invecchia e muore. Simbolicamente, legata al numero “sei”, (diverso dal “nove”, numero dedicato a Beatrice e risultato di una moltiplicazione perfetta del numero tre con se stesso) è l’imperfetta moltiplicazione del numero due con il numero tre: è come se subisse uno scarto. Sei è il numero della tentazione, dell’incompiutezza. Da tale numerologia simbolica si evince, inequivocabilmente, la visione differente dei due poeti sull’amore. 21 Pensi di star male? 22 Malissimo. 23 Non mi sentirò più di essere servo e povero. 24 Che Dio tiri fuori illesa da un tale naufragio la mia nave, com’è vero che io quando mi guardo attorno ho, spesso, l’impressione d’essere sceso da vivo nell’inferno 25 Ferite più intrattabili e più profonde 26 Queste le chiami catene e se te lo lasciassi fare, me le strapperesti?

Beatrice è figura Christi, virtus, sinonimo di quella volontà in armonia con l’universo e del fondamento del moto perenne del tutto. È lei a volere il viaggio del poeta. È un secondo Cristo, nel ruolo intermediario tra uomo che trascende e l’eletto. È motore del divenire e della conoscenza, il maestro interiore, il perdurare dell’equilibrio e del dominio di se stessi. Ella è beata ed è bella, di quella bellezza semplice e pura che nasce da completezza interiore: quella che emanata da Dio, è la fonte del tutto. Sintetizza il bello della natura armonizzato nei quattro elementi aristotelici, al di là di ogni vano e limitante egoismo. Si mostra, infatti, umilmente, come strumento che rispecchia la luce della bellezza suprema, la quintessenza: «I’ son fatta da Dio, sua mercé». Ella non si contamina neppure nell’Inferno. Beatrice, quindi, è anche prefigurazione terrena della Vergine e fonte di salvezza. Di qui, il valore salvifico del suo saluto. La sua morte, narrata nella Vita Nova, rappresenta, infatti, l’abbandono della vita attiva, mentre l’immagine di lei sognata, rievoca l’inizio della contemplazione che succede in virtù di quella rinuncia. Beatrice ha lo stesso ruolo assunto da Maria Maddalena nei Vangeli apocrifi: è l’amata del Cantico dei Cantici, l’intelligenza motrice di Averroè. Laura, invece, rappresenta la tentazione, il peccato che allontana dalla Verità. È evidente di come il suo narcisismo, il tema del “rispecchiamento”, abbia una funzione psicagogica in Petrarca. È questa stessa superbia che sospinge l’anima del poeta verso l’inevitabile trascendimento, riconducendolo all’Essere. Laura è il femminino che inganna, la voluptas, la Verità non rivelata. Petrarca risulta essere, così, l’uomo che incontra “l’altro da sé”, lacerato da un profondo senso di ambiguità, costantemente dilaniato dal duplice e dal contrapposto; a metà tra il voler riappropriarsi della lucidità classica e della soluzione di non continuità tra il divino e il terreno ad essa radicata, e la concezione medioevale cristiana con il suo radicale mutamento di sensibilità e significati. Petrarca è l’umanista, colui che arriva al cospetto della Verità ed è incapace di padroneggiarla. È l’esiliato, il pellegrino smarrito. Laura, concentrata solo sul suo orgoglio, testimonia l’effimero: è colei che non riflette amore e non lo dona agli altri. È il pungolo purgatoriale, il punto di capovolgimento. Arreca dolore all’animo del poeta, ma al contempo, lo conduce ad introspezione: è spada e ago. L’egoismo di Laurea, il narcisismo riflesso in quello specchio che al poeta diventa “nemico”, non è altro che la consapevolezza di una Verità altra rispetto all’esistenza effimera terrena che un uomo non potrà mai del tutto dominare. Lo specchio, per il poeta, diventa l’intelligenza che ritorna in sé: presa di coscienza, umiliazione, “quasi morte”, inizio di un percorso interiore. In conseguenza alla morte della donna amata, il pellegrinare petrarchesco assume le connotazioni dell’itinerarium cristiano. Francesco, in perfetto stile stilnovista, si giustifica subito presentando la sua donna come esempio di nobiltà d’animo, di perfetta onestà e, quindi, dimostrando di amare e apprezzare il suo male, di pensarlo come perfetto e “celeste”; lei che con la sua presenza gli faceva dolce la vita. Quel corpo, però, sarebbe cambiato, invecchiato, provato dalle malattie e dai frequenti parti e lui avrebbe dovuto constatare il suo errore. Laura si avvicinava ogni giorno di più alla morte, esattamente come tutti gli esseri umani e Francesco avrebbe sopportato il peso di questo terribile dolore, a riprova del fatto che nulla aveva quella donna di angelico. Da qui, nelle parole di Francesco, l’amore che trasforma la potenza in atto “lei ha coltivato con il suo nobilissimo sentire quel minuscolo seme di virtù che la natura aveva messo in questo mio petto. Ha distolto il mio animo di giovinetto da ogni lordura (…) e l’ha obbligato a guardare in alto” e ancora “lei mi ha allontanato dalla volgarità della massa, ha guidato il mio cammino e spronato la mia indole pigra, risvegliando l’animo assopito”27. Quella Laura, causa della su accidia, del suo precipizio, della sua rovina, fonte di affanno, peso funesto, svolta a sinistra (perché considerata più facile e larga), inizio del suo traviamento, perché amata solo nel corpo e non nell’anima. Questo è proprio Francesco ad ammetterlo “profecto et illius occursus et 27 P.215

exhorbitatio mea unum in tempus inciderunt”28. Quella donna mai citata ma evocata, padrona crudele che rende l’uomo vittima e malato “il pallore e la magrezza, gli occhi tristi e sempre bagnati, la mente confusa e la quiete del sonno compromessa, la voce spezzata e rauca dal pianto (…) Quando arrivava splendeva il sole e tornava la notte quando se ne andava (…) eri ridotti a rallegrarti o a rattristarti secondo i suoi mutamenti” e ancora” tu hai amato la laurea sia militare che poetica solo perché ella si chiamava così e, da allora, non ti è uscito nessun verso in cui non si nominasse l’alloro” per, poi, concludere “le miserie dell’amore sono queste (…) la peggiore di tutte è che fa dimenticare Dio e di se stessi”29. Così Francesco malato consapevole della sua malattia, risponde ad Agostino preannunciando, quasi, quello che sarà il romanticismo inglese: “io non posso amare nient’altro. L’animo si è abituato a contemplare lei, gli occhi si sono abituati a vedere lei e giudicano sgradevole e opaco tutto ciò che non è lei. Perciò se vuoi che ami un’altra per liberarmi da questo amore mi metti difronte a una scelta impossibile (…) sono perduto” racchiudendo in quel perii tutto il suo dolore e aggiunge “sono fuggito ma ho portato con me la mia ferita”30. Agostino passa, dunque, alla seconda catena di diamante da estirpare nell’animo del poeta, ossia, la gloria: la peggiore delle sue malattie, il parlare di qualcuno diffuso sulla bocca di molti. Questo perché la gloria che deriva dall’aspirazione alle cose vane non ha nulla di eterno e, per Agostino, non c’è nulla di più esecrando e orribile di sprecare la vita in ridicole vanità. La dimenticanza, gli uomini che vengono dopo di noi e che fanno nascere nuove glorie, l’invidia, l’odio contro la virtù: queste le situazioni che ostacolano la gloria vera. Ogni poeta ha tre morti, secondo Agostino: quella fisica, la fine della memoria, la distruzione dei libri. Ricorda, dunque, a Francesco che “ogni volta che vedrai le messi estive seguire ai fiori di primavera e il tepore autunnale agli ardori dell’estate e la neve invernale alle vendemmie d’autunno, ripeti a te stesso: tutto questo passa per tornare più e più volt, io invece me ne vado per non tornare più”31. In tal modo, con quel “FATEOR!32” che risuona alla fine dell’opera, Francesco ha iniziato il suo percorso di mutatio, è diventato consapevole della sua malattia. Consapevolezza che non si tradurrà mai in conversione completa “SED desiderium frenare non valeo”33. In quel SED tutto il suo essere umano, il suo limite esistenziale. Un “ma”, una congiunzione avversativa che racchiude il segreto dell’umanità, l’opera, la vita dello stesso poeta. Francesco desidera MA non ottiene, tende alla perfezione MA è limitato, tende a Dio MA è solo un uomo. Il Secretum si conclude, dunque, con un augurio che Francesco fa a se stesso: “Si plachino le tempeste dell’animo, taccia il mondo e non strepiti la fortuna”34. In quel MA è racchiusa tutta la contraddizione, il dissidio interiore che accompagna l’uomo da secoli e che fa di Petrarca un autore, profondamente, moderno, perché testimone di un’unica certezza: con il trascorrere, inesorabile, del tempo mutano i costumi, le tendenze, il modus operandi, i desideri; ma i sentimenti, le emozioni e il dolore non mutano mai. Explicit liber III Francisci Petrarche de secreto conflictu curarum suarum35 28 In vero, l’incontro con lei e il mio traviamento caddero nello stesso momento. 29 P. 228-229. 30 P. 234 - 235 31 P.277 32 Lo riconosco 33 Non sono capace di frenare il mio desiderio 34 Subsidantque fluctus animi, sileat mundus et fortuna non obstrepat. 35 Finisce il terzo libro di Francesco Petrarca su segreto conflitto dei suoi pensieri.


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