spensierati per preoccuparsi della differenza sociale tra di loro-che quelli pratici - poiché anche se il corso d'acqua era troppoprofondo per essere guadato a nuoto, Cosimo possedeva unapiccola barca per spostarsi di nascosto da parte a parte deltorrente.L'amicizia tra i due, tuttavia, non rimase a lungo nascosta al padre,il quale venutolo a sapere lo disapprovò profondamente; non erasaggio né consueto per un giovane nobile essere così legato conun mero servitore. Quindi Guglielmo vietò a Cosimo di avvicinarsiancora al fiume; e per essere certo che l’ordine fosse rispettato,si premurò che il figlio fosse sempre accompagnato da unmembro della servitù nelle sue passeggiate. Si sa bene però chei ragazzi non sono spesso ligi al dovere, soprattutto quando sitratta di rispettare regole che vanno contro i loro interessi; perquesto non era insolito che Cosimo riuscisse a raggirare i suoiaccompagnatori ed essere comunque in grado di attraversare ilfiume per incontrare il suo amico, anche se questi loro raduni sifecero, con il tempo, tristemente meno frequenti.Bisogna però menzionare che la crisi si faceva sentire sempre più,soprattutto nelle travagliate vite dei banchieri, ormai disperati perl'impossibilità di corrispondere i denari che i clienti gli avevanoaffidato. Per questo certamente non fu affatto inaspettata larichiesta di aiuto dell’ospite dei Bardini, un facoltoso banchieredella famiglia Peruzzi, che seppur non era estraneo alla famiglia,né lo erano stati i suoi antenati, di certo non era un fedele
compagno di Don Guglielmo, che venne ospitato più pereducazione che per confidenza. Durante un'udienza fra i due,infatti, il banchiere rivelò a Guglielmo quanto gli gravasse ilmomento di crisi, e chiese un favore piuttosto considerevole: unprestito in denaro. Le garanzie che gli fossero restituite questericchezze, però, erano assai scarse, e il padrone di casa lo sapevabene: per questo, seppur diplomaticamente, rifiutò di concederequesto favore all'ospite, che reagì con nobile garbo e non provòin nessun modo a convincere Guglielmo a cambiare idea. IlBardini andò a letto sereno e contento perché era riuscito arisolvere velocemente e senza intoppi la situazione, ma un nuovoproblema trovò al suo risveglio e furono le grida indignate dellamoglie a confermarlo: era stato rubato uno dei più preziosi einestimabili gioielli che apparteneva alla famiglia da diversegenerazioni.A lungo si protrassero le ricerche: furono perquisite le stanze dellaservitù e ogni altro angolo della casa, inclusa la camera doverisiedeva il banchiere, ma del gioiello, non v'era nessuna traccia.Cosimo, preoccupato per la madre afflitta e il padre infuriato,raccontò l'accaduto a Pepo, sapendo bene che il ragazzo eradotato di una notevole intelligenza, che poteva certamenteessergli utile. Appena ascoltata la vicenda, Pepo domandò aCosimo subito se qualche ospite risiedesse nella loro magione, ealla risposta affermativa, non esitò ad esclamare che aveva presto
risolto il caso. Al che pregò Cosimo di poter essere portato nellasua residenza e di poter aver udienza con suo padre.Certo non fu contento Don Guglielmo di trovare nella sua casacolui che aveva cercato in tutti modi di tenere lontano dal figlio;dovettero a lungo pregare per poter essere ascoltati, ma quandoPepo menzionò di essere venuto a capo del problema che loaffliggeva, guadagnò la sua attenzione. Guglielmo, infatti, erasempre più disperato e disposto a qualunque cosa per riuscire aritrovare il prezioso gioiello.Pepo rivelò che aveva intuito l'identità del colpevole; era assaiprobabile, infatti, che questi fosse proprio il banchiere. Al che ilpadre reagì dicendo che ovviamente non gli era sfuggita questapossibilità, ma che era troppo scortese pretendere di frugare trale cose del suo ospite.-Non c'è da preoccuparsi riguardo a questo, messere- lo rassicuròil giovane servo -poiché sarà lui stesso a darci il permesso dicuriosare nelle sue stanze- e gli spiegò il suo piano, che futalmente ingegnoso alle orecchie di Guglielmo che non poté certorifiutarsi di seguirlo.Così quella sera si diresse alla camera del banchiere e richieseudienza. Pepo e Cosimo si nascosero dietro la porta e origliaronoi due uomini discorrere in tono gioviale.-Messer Peruzzi, non possono le mie parole esprimere quanto iosia dispiaciuto che lei debba essere testimone di un così vile fatto
durante la sua permanenza qui. Certo è che un uomo onestocome lei non vorrebbe mai avere niente a che fare con tutto ciò-.Il banchiere certo era un uomo arrogante, e sicuramente non erabrillante, poiché dalle lodi si lasciò raggirare, e vide la situazionecome un'occasione per cambiare l'idea di Don Bardini riguardoalla sua decisione nel non concedergli il prestito richiesto, e nellesue chiacchiere superbe affermò:-Mio caro Guglielmo, certo ècosa dite; per questo non mi sono assolutamente opposto alla suagentile e giusta richiesta di perquisire le mie stanze, e nemmenomi opporrei affatto se volesse controllare persino la mia borsa.Infatti, ecco, posso svuotarla davanti ai vostri occhi- e con unfluido gesto, la aprì e ne rovesciò il contenuto sul letto.Questo gesto confermò ogni sospetto di Pepo, che spalancata laporta della camera, esclamò avvicinandosi al letto:-MesserBardini, certo è che lei pensa che io non son degno dell'amiciziadi suo figlio per via della mia povera condizione sociale, ma conun solo gesto le dimostrerò che nonostante quella, io possaessere molto più di ciò che appaio-.E mentre parlava ad alta voce, tirò fuori dalla tasca dei calzoni uncorto pugnale e lacerò la fodera della borsa del banchiere: controogni previsione, se non quelle dello stesso Pepo, il preziosogioiello rubato scivolò fuori e rotolò sul letto. Pepo lo afferròprontamente, porgendolo al padrone di casa, e affermò:-Comequesta borsa, così vuota all'apparenza, che nasconde un oggetto
così inestimabile, anche io nascondo doti preziose dietro lasemplice figura di servo-.Don Guglielmo apprezzò talmente tanto la sua prova di ingegno eil favore che gli aveva fatto nel ritrovare il prezioso oggetto rubatoche permise al figlio non solo di attraversare il fiume ogni volta chevolesse, ma anche a Pepo di visitare gli ampi giardini della lororesidenza e di essere sempre il benvenuto tra di loro.
Armida RussoBernardo e il merlo parlante
BERNANDO, UOMO DAPPRIMA BURBERO E SOLITARIO,FA AMICIZIA CON UN MERLO PARLANTE, IL QUALESCEGLIE DI RESTARGLI ACCANTO ANZICHÈ VOLARE INTOTALE LIBERTÀ. Viveva un tempo a Firenze un uomo dal carattere solitario,chiamato Bernardo, che trascorreva la sua vita in avarizia; perquesti suoi difetti veniva assai criticato e ritenuto inferiore a tuttigli altri uomini della città toscana. Un giorno pazzerello di marzo Bernardo decise di andareal mercato alla ricerca di merci di occasione assieme al figlioloBruno, lasciatogli dalla moglie poco prima di fuggire a gambelevate con un altro uomo. Come tutte le mattine tra babbo efigliolo ci fu un’animata discussione; Bernardo, infatti, non volevacomprare a Bruno quello che lui desiderava in quanto era un
uomo burbero, egoista e taccagno che avrebbe voluto vivered'aria per non spendere neppure un centesimo. Proprio per questo suo brutto lato caratteriale Bernardo erastato abbandonato dalla moglie, non aveva mai avuto un amicoe tutti a Firenze lo denigravano e tenevano a distanza. Alcontrario il figlio era uno scialacquatore, aveva le mani bucate eavrebbe comprato l'impossibile con i soldi del padre. Le sceneggiate tra babbo e figliolo avvenivanopuntualmente all'inizio del mercato davanti alla bancarella chevendeva pennuti; tra questi uccelli vi era un merlo nero, cheassisteva ogni volta stupefatto allo spettacolo e si divertiva aripetere alcune parole che i due si dicevano. Una mattina Bernardo si recò come al solito al mercato, maquesta volta senza portare con sé il figliolo, rimasto a casaperché febbricitante. Camminando qua e là tra le varie bancarellealla ricerca di utensili di seconda mano per la casa, Bernardonotò qualcosa tra una pila di oggetti che attirò la sua attenzione.Prese tra le mani un fiasco per il vino e cominciò ad analizzarlometicolosamente alla ricerca di un difetto che gli avrebbepermesso di far abbassare il prezzo al mercante. Durante lacontrattazione incominciarono ad alzarsi i toni sia dall'una chedall'altra parte e così iniziò una lite furibonda. Il mercante,accortosi del braccino corto del cliente, si rivolse così all’uomo: -Un te l'hanno insegnato che senza lilleri un si lallera? -.Bernardo, sentendosi offeso dal mercante, rispose prontamente
con una serie di parolacce e volarono anche offese. Dopo lasfuriata avvenuta tra i due, Bernardo indispettito si allontanòsenza comprare niente. Preso dalla forte rabbia sentì il cuorebattere velocemente e il caldo afoso della mattinata di certo nonlo aiutò. Dunque, si apprestò a far ritorno a casa, ma mentre sifaceva spazio tra la folla sentì una vocina dietro di lui che lo lasciòimpietrito: - SOLO! SOLO! - . Questo era la parola che facevaarrabbiare Bernardo e che veniva usata spesso dal figliolo perferirlo nell'orgoglio. L’uomo infuriato pensò tra sé: - Eppure Brunoè a letto malato... non può essere lui a parlare! -. Ormai esausto e fuori di sé cominciò a gridare, sperandoche così la voce che sentiva cessasse, e a guardarsi intorno percapire chi fosse a parlare. Ad un certo punto, proprio poco primadi iniziare a pensare di essere impazzito, volse lo sguardo sullabancarella degli animali finché la sua attenzione si concentrò suquell'animale volante dal color nero intenso. Si trattava del merloche si divertiva a ripetere le parole di babbo e figliolo mentrelitigavano al mercato. Il merlo ad un certo punto, resosi conto che l’uomo avevacapito che la voce provenisse da lui, aprì il grosso becco e gridò:- Vecchio burbero e tirchio! Sì, sto parlando con te? Sto parlandocon l’uomo più scontroso e più solo di tutta Firenze, che trattamale tutti? Con colui che urla e non parla, che pensa sempre diavere la ragione e pur di averla sbraita, minaccia, litiga? Chivorrebbe stare vicino ad un uomo così prepotente? C’è qualcuno
qui presente che vorrebbe fare amicizia con lui? -. Bernardo perla prima volta in vita sua cominciò a sentire un strano senso divergogna e iniziò a guardarsi intorno per assicurarsi che nessunoavesse sentito quelle dure parole. Poi amareggiato e in preda alpanico cercò di reagire e di rispondere a tono, ma non riuscì adire nulla. Una volta preso atto dell'assurdità della situazionecominciò a pensare: - Sto davvero parlando con un merlo? È maipossibile che stia diventando pazzo? -. Poi, pensieroso e triste,si incamminò verso casa. Arrivato a casa si rifugiò nella sua camera da letto senzanemmeno verificare se il figlio stesse bene oppure no. Trascorsetutta la settimana a riflettere sulle parole dette dal merlo e arimuginare sulla propria vita e sull’atteggiamento tenuto per tantianni. Gli risuonavano continuamente in testa le frasi pronunciatedal merlo, parole che lo avevano spinto a riflettere su cose a cuilui non avrebbe mai pensato prima: - Sono davvero così solo enon me ne sono mai reso conto? Sono burbero, attacca brighe emi scansano tutti? È questo che le persone pensano di me?Sono davvero così ridicolo per gli altri? Sono senza speranze eisolato da tutti? -. La settimana seguente l’uomo decise di affrontare le proprieemozioni e andò al mercato. Qualcosa dentro di lui era cambiatoanche se ancora non sapeva che cosa fosse di preciso.L’atteggiamento dell’uomo era diverso dal solito: Bernardo sifermava a salutare tutte le persone che incontrava, togliendosi il
cappello e intrattenendosi a scambiare quattro chiacchiere etutto ciò avveniva sotto gli occhi stupiti del merlo che proprio nonlo riconosceva. Ad un certo punto l’uomo si avvicinò congentilezza al bancone dei pennuti e senza neppure contrattare ilprezzo, come di abitudine faceva, puntò il dito proprio sullagabbia del merlo: -Vorrei quello per favore!- . Il mercante disse:- Ma guardi che costa molto; si tratta di un animale moltopregiato!-. Bernardo commentò così: - Non mi importa delprezzo! L’amicizia non ha prezzo! -. Il merlo non fu l’unico acquisto che Bernardo fece quelgiorno: subito dopo aver comperato alla bancarella dei pennuti,infatti, l’uomo si diresse con il merlo sulla spalla in farmacia ecomprò una scatola di tachipirina. Dopodiché si incamminaronoa casa, dove si trovava il figlio febbricitante. Bernardo presentòa Bruno il merlo e subito dopo gli diede la medicina che avevaacquistato per fargli passare la febbre. Felice di quello che aveva fatto e di come il merlo parlanteaveva saputo cambiare la sua vita in meglio, Bernardo decise diringraziarlo regalandogli la libertà, ossia il dono più grande chepoteva fare per quello che considerava un vero e proprio amico.Ad un certo punto l’uomo disse singhiozzando al merlo: - Vola!Vola via amico mio ! Vivi la tua vita! –. Al pensiero di non poter più vedere il merlo, Bernardo sirattristì e per cercare di non piangere decise di volgere losguardo altrove per evitare di vedere il suo amico pennuto volare
via. Non riuscì a lungo nell’intento di non guardarlo perché pocodopo si voltò indietro e si accorse che il merlo era ancora lì.Nonostante l'uomo gli avesse offerto una bellissima opportunità(la possibilità di volare in totale libertà), il merlo aveva sceltol'amicizia, aveva scelto di vivere accanto a Bernardo.
Sabrina Mercurio Cassandra
A distanza di poche settimane dalla scomparsa della sua più caraamica, Renato, che pensava di conoscere tutto dell'enigmaticaCassandra, scoprirà, attraverso la lettura di un blocco di lettereindirizzate a lui, di essere una persona vergognosamentesuperficiale.Non è facile tenersi stretti gli amici.E questa è una verità universale: certe volte non è sufficiente iltempo di una vita intera per conoscere appieno una persona, perinstaurarvi un legame che oserei definire quasi fraterno, mabasta un nonnulla, un battito di ciglia per dissipare quell'empatiache aveva reso due persone l'una lo specchio dell'altra. Bastanoun paio di occhi che si chiudono troppo in fretta a mandare infrantumi quello specchio.La mia migliore amica si chiamava Cassandra. La mia amiciziacon lei è stata un grande percorso a ostacoli: eravamo dueminuscole formiche che corrono da una parte all'altra di unpavimento scivoloso per evitare di farsi schiacciare dalle suole discarpe infinitamente più grandi di loro, calzate da Bigottismo,Perversione e Cattiveria.Essere amico di una ragazza omosessuale nel ventunesimosecolo è stata la più grande sfida psicologica che quella burlonadella vita mi abbia mai imposto, un gioco pericoloso a cui,nonostante abbia pateticamente perso, non mi sono mai pentito
di aver partecipato.Cassandra ed io andavamo avanti, non importavano le occhiatedisgustate della gente nei corridoi del liceo, e nemmeno lefrecciatine velenose che ci venivano elargite, partorite dallamente di coloro che immaginavano chissà quali perversioni circala bizzarra amicizia tra un eterosessuale e una lesbica.Cassandra è scomparsa da poche settimane. Nessuno ha ideadi dove possa essere, né perché si sia allontanata.Neppure io, che a detta sua ero l'unica persona al mondo di cuisi fidasse, posso lontanamente immaginarlo. So solo che, dalmomento in cui ha smesso di rispondere ai miei messaggi, daquando, provando a chiamarla, il suo numero è risultatoinesistente, dopo l'interrogatorio dei suoi genitori e,successivamente, del corpo di polizia che indagavano sulla suascomparsa, ho capito che Cassandra se ne era andata per nonguardarsi più indietro.Negli ultimi giorni mi è tornato alla mente ciò che mi disse pocheore prima di sparire. Non ricordo né il luogo né la circostanza;l'unica immagine nitida di quel barlume di memoria siamo noi dueche camminiamo. In direzione di cosa, non credo lo ricorderòmai.Camminavamo da un bel po' di tempo; Cassandra stavaparlando da quelle che mi sembravano ore ma io, per qualchemotivo, non la stavo ascoltando. Probabilmente lei si era accortadella mia disattenzione, ma non mi richiamò mai. Ho sempre
pensato che a Cassandra non importasse essere ascoltata: perlei ciò che contava era parlare. Si accontentava spesso, dunque,dei miei silenzi durante i suoi monologhi, del fatto che laguardassi senza mai vederla davvero. Avevo provato, talvolta,ad ascoltarla, ma mi ero ben presto accorto che della miaopinione non se ne faceva molto.Ciò che non dimenticherò mai, però, del suo interminabilemonologo -parole che si perdevano nell'eco dei nostri passi sullastrada deserta, che il vento agguantava e portava via chissàdove, prima che potessi carpirne alcun significato-, sono le ultimebattute che pronunciò prima di chiudersi in un silenzio accigliato.Disse:– Tanto me ne vado, da qui.Allora io avevo smesso di camminare, e lei con me. Ci eravamoguardati per un secondo, o forse per un'ora, ed io, in quelmomento, mi sono accorto di avere davanti agli occhiun'estranea. Cassandra la stavo vedendo per la prima volta,priva di ogni maschera, messa allo scoperto, ingannata dalle suestesse parole.– Che stai dicendo? – domandai, e nella mia voce si udìchiaramente il risuonare di una nota di preoccupazione edimbarazzo – Dov'è che vorresti andare?Cassandra aveva scosso la testa e non aveva più parlato.In quel momento mi resi conto che io e quella che consideravo
da anni la mia migliore amica non eravamo l'uno lo specchiodell'altra. Lei era una pozzanghera d'acqua limpida in cui io nonfacevo altro che riflettermi da una vita, fissando la mia immaginecome se non esistesse altro. Lei mi conosceva così bene, ma iocosa sapevo di lei? Perché mi accorgevo solo in quel momentodi non aver fatto altro che specchiarmi, senza mai provare adinfrangere la mia immagine, senza mai alzare lo sguardo?L'idea che Cassandra potesse davvero andarsene non mi sfioròmai davvero, almeno non prima che la sua assenza divenisse unfatto concreto.Avrei dovuto comprendere le sue intenzioni dagli straniatteggiamenti che aveva cominciato ad assumere nell'ultimocapitolo della nostra amicizia, di come il suo umore fosseirrimediabilmente precipitato. Era cambiata, e non mi eroneppure disturbato a chiedermi perché.Ma delle mie domande non sapevo davvero che farmene. L'unicaoccasione per comprendere il disegno astratto che Cassandraaveva tracciato con le parole, a cui non avevo mai prestatoascolto, era scemato a causa della mia superficialità, dellaconvinzione di aver capito tutto, senza essermi mai sforzato dicomprendere alcuna cosa.Ma Cassandra mi conosceva, forse meglio di quanto miconoscessi io stesso. Sapeva dunque che non sarei stato vintodalla curiosità né che le avrei fatto troppe domande quando, in
anticipo di poche settimane al mio compleanno, proprio il giornoprima della sua scomparsa, mi aveva dato un pacchetto rivestitodi carta azzurra, a forma di parallelepipedo.– Aprilo il giorno del tuo compleanno – mi aveva detto, dandomiil pacchetto – E non prima, okay?– Va bene – avevo annuito – Perché me lo dai ora?Era un comportamento piuttosto inusuale, dovevo ammettere,ma non ci rimuginai più di tanto. Una cosa su Cassandra lasapevo anche io: alla fine, tutti i suoi giri di parole non potevanoche chiudersi su se stessi. Alla fine, avrei capito perché lei miavrebbe fatto capire.Cassandra, con un'alzata di spalle, mi rispose in maniera quasiseccata:– Non si sa mai.Il giorno del mio compleanno mi svegliai col cuore in gola.Non mi importava di compiere gli anni, ma solo del pacchettoazzurro che avevo lasciato sul fondo dell'armadio chiuso achiave per settimane, l'impulso di scartarlo sempre piùimpellente.Strappai via la carta azzurra, e per poco non deturpai ciò che visi celava dietro, un insieme di fogli di carta dall'aria vagamenteconsumata, colmi di scritte e legate da un filo di spago lungo esottile. Sciolsi il nodo con delicatezza, come se quel blocco di
fogli fossero le ali di una farfalla senza vita.Cominciai a leggere il primo.Renato,cosa si regala ad una persona che possiede tutto, ma cieca neiconfronti della propria ricchezza? Cosa potrebbe far felicequalcuno che, di base, non sa nemmeno cosa sia, la felicità?Di compleanni ne avrai tantissimi ancora, Renato, ma corro ilrischio di non poterti fare gli auguri tutte le volte. Dove sarò, adesempio, quando compirai trent'anni? E dove potrò mai essereora?Voglio regalarti qualcosa che valga per tutti i giorni che nontrascorreremo più insieme, una sorta di pezzo della mia vita cheti dia la certezza che non me ne andrò mai del tutto. I miei ultimigiorni a Napoli sono stati tremendi, ma partiamo dall'inizio.Sai chi era Cassandra nella mitologia greca? Una profetessainascoltata, ecco chi era. Capace di tutto, persino di prevedere ilfuturo, ma non di farsi ascoltare. Non trovi che mi calzi apennello? Perché il Fato che ha voluto giocare con me?Tu mi conosci poco, Renato, ma sai quanto io sia ostinata ecompetitiva. Non lascerò che il Fato mi porti lontano da te senzaaverti mostrato davvero chi era colei che continuavi a chiamareamica. So che ascoltare ti è impossibile, ma leggere ti piace cosìtanto che sono sicura che questo blocco di lettere diverrà il tuoracconto preferito.
Ti regalo pezzi interi di me, di quella persona che, pur nonavendo davvero idea di chi fosse, hai sempre difeso ad ognicosto. Ti dicevo che volevo combattere da sola le mie battaglie,ma non me lo hai mai lasciato fare, come se le mie ferite fosseroanche un po' tue. Erano problemi soltanto miei il mio esserebellicosa, la testardaggine, la mia omosessualità -probabilmenteavrai alzato gli occhi al cielo: non è un problema, staraipensando, ma devo contraddirti. Lo è, lo è sempre stato e lo saràsempre-; dicevo, erano problemi miei e tu li hai fatti tuoi, me li hailevati dalle spalle e mi hai teso la mano per guidarmi in un postosicuro, un rifugio che senza nemmeno provare a conoscermi miavevi già regalato.Potrò mai ricambiare l'amore che mi hai elargito, il sostegnosenza il quale mi sarei persa molto prima?Volevo andarmene, Renato, volevo rinascere. Ma allo stessomodo non volevo lasciarti.Non si può avere tutto dalla vita, eppure la vita vuole tutto da noi.Ci strappa le persone che amiamo, ci obbliga a recitare dicontinuo.Io non so recitare, Renato, e ho deciso di smettere.Voglio che ciò che rimane di me resti per sempre tuo. Solo cosìpotrò davvero rinascere.Per sempre tua, Cassandra
Anna DommiLuna Nuova
Mastro Nauta e Fabbro Astro vogliono fare una beffa al lorocomune amico il Pittor Testanaria, ma a subirla non sarà sololui...Mastro Nauta e Fabbro Astro avevano deciso di visitare il loroamico Testanaria che da un po’ di tempo non usciva dal suostudiolo. Lo trovarono mentre misurava a grandi passi la stanza,percorrendola freneticamente avanti e indietro: si asciugava ilsudore dalla fronte con uno straccetto sporco di pittura, lasciandoil volto più colorato della sua tavolozza. I due compari, trovatoloin questo stato, gli chiesero preoccupati cosa fosse successo equello rispose: “La luna! La luna! Hanno portato via la luna! Ierinotte qualcuno l’ha rubata! E io che volevo dipingerla...” I dueamici si guardarono perplessi e cercarono di non scoppiare aridere: conoscevano benissimo l’ingenuità del loro compare esapevano che avrebbero potuto farsene beffa. Nauta, che megliosapeva nascondere il riso, disse a Testanaria: “Sì, lo so ... dadomani a poco a poco noi la riporteremo lassù non tipreoccupare...” Il pittore si riscosse dal suo stato pietoso comese gli fosse caduto un secchio di acqua in testa (che, in effetti,non gli avrebbe fatto male vista tutta la tempera che si ritrovavasul volto): “Noi chi? L’avete rubata voi? E dove l'avete messa?”Astro, che aveva capito l’intento dell’amico, diventando rosso perlo sforzo di non ridere, bisbigliò: “Ehi! Queste cose non vannodette a nessuno”. Nauta, soddisfatto di avere una spalla, replicò:“Ma ormai...” Astro finse di esser stato convinto dall’amico e,
rivolgendosi a Testanaria, sussurrò “Devi sapere, che una voltaal mese rinchiudiamo la luna in un posto segreto per poterlaammirare solo noi. Poi, per non farci notare, la rimandiamo incielo poco per volta... ma mi raccomando” ponendosi l'indicesulla bocca in segno di silenzio, “non devi dirlo a nessuno: è unsegreto”. Testanaria tra il sorpreso e il sognante disse: “Oh,stasera la rivedrete? Vorrei tanto poterla toccare...” I due glipromisero che l’avrebbero portato dove era rinchiusa e il pittore,tutto felice, riempì di baci i suoi amici che, sghignazzando,uscirono fuori dallo studiolo progettando come mettere in attol’ormai iniziata beffa.La sera i due si presentarono alla porta di Testanaria e,accompagnatolo alla macchina, lo bendarono dicendogli che ilposto dove era stata rinchiusa la luna doveva rimanere segreto.Quello non si fece problemi e si mise sul sedile posterioreeccitato come un bambino. Arrivati a Villa Lunanuova, i duefurbastri attraversarono la rete che circondava il meravigliosogiardino della villa e portarono l’amico al pozzo sopra al quale sitrovava un fanale. Testanaria, dopo che gli fu tolta la benda, siaffacciò al pozzo e, vedendo la luce del lampione riflessa sulfondo, credette di vedere la luna. Senza tanti complimenti si calònel fondo del pozzo aiutato da una corda che i due compari sierano portati appresso. Arrivato là, si sentì un grande splash eNauta e Astro cominciarono a ridere a crepapelle. QuandoTestanaria capì la beffa, si volle vendicare subito e urlò: “Non mi
avete portato dove è la luna, ma tutto questo tesoretto quaggiùin fondo? Mi ci vogliono almeno altre due persone per portarlotutto su!” I due si guardarono stupiti e senza pensarci due voltesi tolsero le giacche e scesero anche loro nel pozzo. Arrivati infondo, prima che potessero capire cosa fosse successo,Testanaria salì su con la corda e se la portò via. Prese le chiavidella macchina da una delle giacche, lasciò i due furbastri làsotto che gridavano aiuto e se ne andò cercando di capire dovei suoi compari lo avessero portato. Senza troppa difficoltà tornòa casa e, dopo essersi asciugato, si mise a dormire. Il giornodopo, in paese girava voce che due pazzi, la sera precedente,vedendo la luce di un lampione riflessa in un pozzo, avevanocreduto, dal momento che in cielo non c’era, di trovare la luna: idue, gridando aiuto a squarciagola, furono soccorsi daiproprietari della villa che ebbero pietà di loro e li lasciaronoandare. La coppia continuava a insultare un certo Testanariadicendo che aveva rubato loro la macchina...
Ginevra MarchesiTre ragazzi e una bottiglia
Tre amici, uniti da un legame indissolubile, per una bottigliatrovata in mare, si trovano per la prima volta a confronto conl’egoismo e i desideri più irrazionali dell’animo umano.Poche volte nella storia un legame così forte aveva unito treragazzi. La loro amicizia aveva radici profonde, intrecciata allastoria di tre famiglie di pescatori, costrette nella morsa fatale diun potente sovrano, che, con pretese da tiranno, avevasottomesso il piccolo borgo al suo sfrenato desiderio di potere. Ipescatori, a suo dire, dominatori del mare, erano stati i primi acadere sotto la sua follia; Il tiranno aveva costretto molte famigliead abbandonare i propri averi e cercare una nuova terra da poterchiamare ‘casa’. Tre le famiglie che si erano opposte e che unitequasi da un istinto primordiale, erano riuscite a sfuggire allastretta della tirannide. Tra i tre piccoli nuclei era nato qualcosa digrande, un legame indissolubile, di cui ancora si raccontavano leorigini.La leggenda passava ancora di bocca in bocca, illuminava gliocchi increduli dei bambini, che in parte se ne sentivanoprotagonisti. Forse il destino stesso aveva unito Oderisi, Avidio eStazio , che fin da piccoli avevano sempre sentito raccontarequella storia… la loro storia. Gli anni d’infanzia trascorrevanorapidi, fra un bagno nelle tiepide acque del mare e le serepassate ad ascoltare la loro ‘fiaba’ preferita. Ogni ostacolo, perquanto grande e spaventoso potesse sembrare agli occhi di un
bambino, quando erano insieme, si trasformava in un gioco,innocuo; non solo si porgevano l’un l’altro una spalla su cuipiangere, ma erano capaci anche di gioire insieme: gesto tanto“banale” che spesso neanche i “veri amici, che si vedono nelmomento del bisogno” riescono a fare, divorati dall’invidia. Ilmondo era grande, ma loro insieme lo erano ancora di più.Con l’adolescenza gli interessi di tutti cambiarono e i giochiinfantili passarono, mentre il tempo dipingeva, con segni semprepiù marcati, sugli esili corpi di bambino, le sembianze di un uomo.Accompagnato al cambiamento del corpo, il carattere di ognunoaveva iniziato a modificarsi, in una lenta metamorfosi che a ogniparola, pensiero e desiderio, disegnava su ogni ragazzo unanuova personalità.Oderisi vedeva il mondo da un nuovo punto di vista e, assetatodi conoscenza, ne setacciava ogni angolo, mentre Avidio,sempre incastrato fra le reti da traino, seguiva le orme deigenitori; tutto sotto lo sguardo vigile di Stazio, al quale, oltre auna spanna di distacco in altezza rispetto agli amici,l’adolescenza aveva portato disincanto. Tuttavia il triocondivideva l’amore per il mare: la passione li portava aintraprendere lunghe traversate, pur di sfuggire alla terraferma,che tanto li limitava e opprimeva. La rivoluzione del corpo nonaveva tuttavia ancora alterato i cuori dei giovani che, sognatori,speravano di poter cambiare insieme, un giorno, il mondo. Sulpiccolo peschereccio, lontano dalla costa, il tempo scorreva
dolce come le onde che accarezzavano l’imbarcazione.In una delle torride giornate d’estate, i giovani avevano deciso diavventurarsi in mare, per sfuggire l’arsura e la noia,abbandonandosi alla corrente e al destino. Oderisi era stato ilprimo a pensare di uscire in barca: l’idea aveva immediatamenteacceso i due amici e mentre Avidio era corso a chiedere ilpermesso ai genitori di prendere la barca di famiglia, Stazioaveva subito studiato una rotta. Dopo pochi minuti volavanorapidi sulla distesa celeste, mentre il sole si specchiava ridentesul mare cristallino, appena increspato dalla schiuma biancadelle onde. Oderisi sedeva sulla punta di prua, le gambe lasciatemolleggiare fuori dalla barca, mentre con il suo fidatocannocchiale scrutava l’orizzonte piatto. Fu un lampo. Fra leincrespature del mare balenò una luce, ma subito dopo riaffondònelle oscurità marine. Oderisi pensò che si trattasse solo diun’allucinazione, causata forse dal caldo o dalla stanchezza. Unnuovo chiarore attirò la sua attenzione: iniziava a dubitare dellasua lucidità. Al terzo lampo capì che forse non era solo fantasia.Qualcosa fluttuava sulla superficie e dava segnali luminosiirregolari, giocando a nascondino fra le onde. Uno sguardorapido alla bussola, un altro all’oggetto misterioso: “Oggetto inmare a tribordo!”; Stazio, timoniere, virò di pochi gradi, corressela rotta e si avvicinò fino ad affiancare la piccola luce. Avidio eStazio si scambiarono un rapido sguardo d’intesa. Il primo, inuna corsa frenetica, recuperò una rete e, rischiando di
inciampare più volte fra le cime, la gettò in mare. Aiutato dagliamici, la rete fu riportata a bordo e, setacciata, portò ai giovaniuna grande scoperta. Fra le alghe si nascondeva una bottiglia difragile vetro; un semplice tappo di sughero sigillava all’interno delpiccolo contenitore quella che pareva essere una pergamena: iltempo e l’umidità avevano visibilmente rovinato la carta, adessodi un colore brunito. Seduti in cerchio sul legno umido, gli amiciscrutavano con attenzione la bottiglia poggiata su una cassa:pareva quasi stessero cercando di intravedere il contenuto delpiccolo rotolo al suo interno. Silenzio. Tutti erano troppo curiosi.Avidio fu il primo a rompere il silenzio.«Secondo voi cos’è?»«Una bottiglia.»«Oderisi, ti prego, puoi essere serio almeno una volta nella tuavita?»«Non fare il noioso, è solo una bottiglia.» Rispose Oderisi conuno sbuffo .«Non sono noioso, sei tu che devi smet-» Stazio ruppe la suasolita quiete: «E’ una mappa.»«Una mappa!» Oderisi si lasciava sempre entusiasmareeccessivamente da tutto ciò che potesse nascondere un qualchemistero. Un gesto rapido e la bottiglia già piroettava, da unamano all’altra dell’abile Oderisi; l’amico accanto, con unmovimento fulmineo della mano, se ne era già riappropriato,terrorizzato all’idea che il vetro potesse rompersi. «Cosa stai
facendo!?»«La stavo solo guardando!» Oderisi alzò il tono di voce e Stazionon esitò a aumentare il volume a sua volta: «Così la romperai!»«Non sono un bambino!»«Fai sempre danni, non la toccare!»«Silenzio!» E il silenzio cadde: gli amici guardarono Avidiointimoriti; pareva che anche le onde avessero cessato il lorosciabordio. Nessuno dei tre si era mai permesso di urlare controuno degli amici. Quiete.«Mi spiace, non volevo essere così brusco. Non ha sensolitigare per una cosa così stupida.» Sospirò Avidio.«Siamo d’accordo sul fatto che sia una mappa?» tagliò cortoStazio, convinto che la polemica avrebbe solo recato altrodanno. Gli amici annuirono all’unisono… pareva si fossero giàdimenticati dell’accaduto. Ancora una volta Oderisi non erariuscito a frenare il suo entusiasmo e subito aveva esordito con:«una mappa per un luogo nascosto!». I due scossero il capo insegno di dissenso e parlarono nello stesso istante, con laconvinzione che stessero per dire la stessa cosa; ma sisbagliavano. Avidio era convinto che non si potesse trattare dialtro se non di una classica “mappa del tesoro”, forseabbandonata alle onde da un terribile corsaro; il cuore di Staziomirava più in alto, dando speranza a uno dei più grandi desideridell’uomo: «potrebbe portare alla Fonte della Giovinezza.»«Avidio, la tua teoria è infondata quanto quella di Stazio» sbuffò
Oderisi.Avidio scoppiò in una rumorosa risata: «siete troppo ingenui.Pensate a qualcosa di più reale! E se qualcuno avesse nascostoun forziere carico di denari, oro e argento? Non patiremmo maipiù la fame!»«Ogni tesoro nascosto è già stato scoperto, ogni terra‘sconosciuta’ già saccheggiata… io credo che all’uomo nonappartenga solo l’immortalità spirituale, ma anche quella delcorpo. Questa mappa potrebbe essere la soluzione» suggerì ilterzo.L’atmosfera si era fatta pesante, come se qualcosa si fosseimprovvisamente spento. Avidio bramava ricchezze, il desiderioche ha sempre tormentato l’uomo; Stazio spaventato dallamorte, cercava disperatamente una soluzione alla sua miserasituazione; Oderisi, infine, aspirava alla fama e che il suo nomenon cadesse mai nell’oblio. Le “parole alate” portavano soloinsulti, discussioni senza una soluzione.«Niente di tutto questo! Questa mappa può solo condurci in unaterra ancora sconosciuta… è ovvio! Apriamo la bottiglia efacciamo rotta per Atlantide!». Il gelo: nessuno aveva ancoraparlato di aprire la bottiglia. «La apro io, la bottiglia è mia.» Le trevoci si levarono all’unisono. «Se non avessi deciso di uscire inmare oggi, non l’avremmo mai trovata!» «Ma questa barca èmia!» «Zitti entrambi, ho tracciato io la rotta, è grazie a me sesiamo giunti qua!». Tutte quelle ripicche, quegli screzi, quei litigi,
che sembravano non averli mai sfiorati da piccoli, sipresentavano ora con la furia di qualcosa che era stato repressotroppo a lungo. La bottiglia, rimasta finora inviolata, si trovòpresto stretta da tre mani, in una terribile morsa. Ogni ragazzocon una mano si teneva saldo alla presunta fonte di ricchezza,mentre con l’altra cercava di ostacolare gli altri. D’un tratto lastretta si fece più leggera e le mani strinsero il vuoto. Dall’altodelle loro speranze, la bottiglia distrusse rovinosamente i lorosogni sul pavimento ligneo. Il suono di una speranza che siinfrange è devastante. Non osavano abbassare lo sguardo, maerano tuttavia pronti a gettare le mani nel vetro, pur di recuperarela pergamena. Si fecero coraggio. Quanto lo stupore nel notareche con la caduta la carta ‘immacolata’ si era stesa fra leschegge! Quanta la delusione nello scoprire che l’oggetto tantoagognato non nascondeva affatto una mappa! Sulla cartainvecchiata si leggeva una sola scritta.«La guerra più terribile è quella che deriva dall'egoismo edall'odio, rivolto non più verso lo straniero, ma verso ilconcittadino, il compagno.»*Ciascuno lesse il breve testo, incrociarono i loro sguardi e dopofurono solo mare e vento.*(Giacomo Leopardi; Zibabldone di Pensieri)
Martina BuscemaCon le mie scarpe ai piedi
Tutto ebbe inizio l’estate del 2010.Come ogni anno la trascorrevo in Sicilia dai nonni paterni maquell’agosto sembrava non finire mai; il caldo torrido non davaun attimo di respiro ed il vento soffiava costantemente portandodal deserto sabbia rossa che si depositava su ogni cosa dandola sensazione di camminare sul pianeta Marte più che per levecchie strade di un borgo di pescatori.La nonna trovava sollievo solo verso sera quando spalancavatutte le finestre della casa con la speranza che l’aria notturnaconciliasse il sonno.E tutto successe proprio durante la notte …Ci svegliammo una mattina con la sensazione che qualcosa eraaccaduto ma non riuscivamo a capire che cosa; la nonnacontinuava a dire di aver trovato il frigorifero aperto, ma potevatrattarsi di una sua dimenticanza, il nonno era convinto di averriempito le bottiglie d’acqua che invece adesso erano senzaalcun dubbio vuote, io invece non trovavo più le scarpe daginnastica con le ghette verdi regalate da Marta, la mia miglioreamica, ma la nonna sosteneva che le aveva prese mia sorella,rientrata a Firenze il giorno prima.Eppure qualcosa aveva attraversato il nostro sonno, qualcosache non aveva lasciato traccia, come il vento o forse erano lenostre menti annebbiate dal caldo siciliano.
Cercai le scarpe ancora per qualche giorno, inutilmente, poi tuttoriprese come prima; gli ultimi bagni al mare, le ultime serate inspiaggia con gli amici e poi la partenza per Firenze dove tuttoriprese regolarmente il suo corso.Neanche a casa però ritrovai le scarpe, accusando mia sorella diaverle perse chissà dove o di averle regalate all’ennesimo amoreestivo di breve durata.Ricominciò la scuola,le giornate scorrevano veloci, la pioggiasettembrina, anticipatamente fresca, faceva rimpiangere ancheil caldo dell’estate e dopo lo studio invogliava poco a uscire,facendomi passare i pomeriggi distesa sul divano, a guardare latelevisione.Fu proprio durante un pomeriggio piovoso che improvvisamente… tutto si schiarì.Il giornalista aveva appena annunciato il salvataggio di unabimba caduta nelle acque di un non mi ricordo bene qualeaffluente del Po, mentre si trovava in vacanza con tutta lafamiglia che, intenta ad arrostire carne sulla griglia, aveva persodi vista la piccola; se non fosse stato per l’intervento di unragazzo, alla tavolata avrebbero dovuto togliere un posto.La telecamera si spostò sul volto dell’insolito eroe, era giovane,più o meno la mia età, un volto africano con due occhi neri comela notte, la bocca carnosa con dei denti bianchi come zanned’avorio. Mi avvicinai alla televisione mentre
contemporaneamente la telecamera si allontanava facendovedere il salvatore in tutta la sua figura longilinea con un corpoatletico, abituato a correre più che a passare i pomeriggi davantialla TV.Ero attratta da quel volto vivace e sbarazzino e tutto successe …la telecamera allargò ancora la scena e ad un tratto urlai: “le miescarpe!! Le mie scarpe!!”.Sullo schermo scintillavano le ghette verdi di un paio di scarpeda ginnastica … le mie … le aveva ai piedi. Tutto fu chiaro. Ilgiornalista lesse che il giovane era sbarcato l’estate scorsa lungola costa siciliana ed aveva poi attraversato l’Italia trovando lavoroin Veneto come bracciante per la vendemmia.Era proprio lui ad essere entrato nella casa dei nonni, leggerocome il vento africano ed aveva portato via solo ciò di cui avevabisogno. Io avevo donato qualcosa di mio a lui, come si fa conun ospite di passaggio e lui con il mio dono aveva fatto tantastrada ed anche a me sembrava di aver fatto la stessa strada conlui. Avevo dentro al cuore un sentimento di condivisione, unaparte di me aveva partecipato a quel salvataggio, senza le miescarpe ai piedi forse non si sarebbe trovato lì in quel momento,nei suoi occhi vivaci vedevo tutti i sogni di un adolescente comeme, brillavano di attesa e di speranza.Il cuore mi batteva in testa, ero felice ed orgogliosa, avrei volutourlare al mondo che io quel giovane lo conoscevo, anche solo
perché per un momento, di notte, mentre dormivo, mi erapassato vicino e chinatosi aveva raccolto le mie scarpe dalpavimento, senza fare rumore.Intanto nel salotto era arrivata anche la mamma che, avendomisentita urlare un attimo prima, adesso mi vedeva incollata almonitor della televisione:- “ma a chi stai sorridendo?”, chiese curiosaÈ vero, avevo sul volto un sorriso, come si fa quando si rivedeun amico.Ancora oggi penso, seduta sull’autobus che mi porta a scuola, acosa starà facendo Halim, adesso conosco anche il suo nomeche, per qualche giorno, è stato scritto su tutti i giornali.Avrà trovato ciò che cercava? Sarà ancora in Italia? … quelgiovane che porta le mie scarpe ai piedi e con il quale non homai scambiato neanche una parola, adesso mi sta a cuore …non è forse questa l’amicizia?
Manuel Amodeo Duccio Cava
Duccio, un piccolo uomo non più alto di una botte di vino, stavaseduto alla taverna in fronte alla statua di Cosimo a Cavallo, nellaridente città fiorita…Firenze.Scolandosi un bicchierozzo di buon vino del Chianti, ripensavaalla sua vita, a quando era un pargoletto in grembo alla mamma,a quando gli amici delle superiori lo prendevano in giro per la suastatura; e poi pensava alla sua vita di ora…nient’altro che unostraccione nullafacente…Il “piccolo” Duccio se ne stava a sedere in disparte avvolto neisuoi pensieri quando ad un tratto arrivò Carlo, l’amico di sempre;un giovane uomo molto snello e muscoloso, vestito di tutto puntodal miglior sarto di Firenze e al polso il suo fantastico Rolex d’orozecchino.Carlo appena vide l’amico esclamò: “Duccio! Sai che ora è? E’l’ora di un drink.” E la giovanissima Milena, la cameriera, scattòcon un bicchiere pieno zipillo di vino bianco con bitter Campari.Carlo lo scolò in un solo sorso ed esclamò soddisfatto:“Spumeggiante!”. Duccio, un po’ alticcio e barcollante, si alzòma cadde a terra e dalle sue minuscole tasche fuoriuscì unpiccolo foglio di carta.Carlo con mano lesta raccolse la cartaccia e, quando la girò, notòche era un piccolo gratta e vinci da pochi soldi; notò che eragrattato solo per metà e che il montepremi ammontava a diecimilioni di euro. Mise la mano in tasca e tirò fuori una moneta da
venti centesimi, grattò velocemente e pensò di fare uno scherzoal giovane amico. Si mise a gridare a squarciagola “Sììì! Hai vintoDuccio, hai vinto!”.Duccio preso dall’emozione cominciò a saltellare con le suepiccole gambe tozze urlando di gioia. Oramai non vedeva uneuro dal ‘97, quando la sua ditta era crollata per i debiti; da quelfatidico giorno viveva come un barbone. Ogni tanto trovavalavoro al bar dove poi veniva ripagato con due o tre bicchieri divino e qualche tozzo di pane. Insomma…Duccio era al settimocielo ma, c’è sempre un “ma”… vide con la coda dell’occhiol’amico che rideva e gli venne un dubbio: “ Che sia uno scherzo?”“Ebbene sì, caro Duccio” bofonchiò Carlo fra una risata e l’altra“E’ tutto uno scherzo, vieni dai che ti offro da mangiare” disseinfine. Duccio, un po’ triste e arrabbiato, ordinò il miglior pastodel bar, mangiò soddisfatto e bevve tanto da dissetare tuttoGreve in Chianti.La mattina seguente Duccio si risvegliò in un letto enorme, in unacamera azzurra come il cielo e con una bella ed ampia finestrache dava sul cortile posteriore di una villa. Uscì dalla camerastupito e chiese alla donna delle pulizie dove si trovasse. La belladonna disse a voce bassa “Come, non si ricorda? Siete nella villadi Carlo Bonconventi, vi ha fatto dormire qua, signor Cava”.Allora si rivestì con i pochi stracci che aveva e andò a giro per lacasa a cercare Carlo. Quest’ultimo si trovava nel salone dellavilla e stava giocando a carte con degli amici.
Precisamente stavano giocando a Poker, il gioco grazie al qualeDuccio aveva fatto fortuna tanto da aprire la sua ditta nel 1994,ma i ricchi uomini d’affari non sapevano questo “piccolissimo”particolare. Chiesero a Duccio di unirsi alla partita e questi, datoche non aveva nulla da perdere, accettò volentieri.Carlo anticipò tre milioni di euro di partenza per Duccio.Le fiches venivano buttate sul tavolo, imbandito di carte efoderato di un tessuto verde, come niente fosse…Ducciocalcolava tutto alla perfezione…stava giocando benissimo.Ultimissima mano, i tre uomini d’affari erano usciti dal gioco, datoche avevano perso tutti i loro soldi, ma Carlo no, rilanciava incontinuazione perché era sicurissimo di vincere, avendo cinquecarte in sequenza e tutte di picche. Infine, dopo essersi giocatola maestosa villa e averne buttato le chiavi sul piatto, sfoderò lesue carte e mostrò la sua scala al colore. Duccio rimasespiazzato, ma con un ghigno sul volto fece vedere la sua scalamassima; l’unica serie di carte che può schiacciare la scala alcolore.Questo non era più un gioco, era una questione di orgoglio, unalezione di vita, di come le situazioni si possono ribaltare, inqualsiasi momento.Carlo si mise le mani fra i capelli, era spacciato…aveva persotutto!
Duccio, un piccolo uomo non più alto di una botte di vino, stavaseduto alla taverna in fronte alla statua di Cosimo a Cavallo, nellaridente città fiorita…Firenze.Scolandosi un bicchierozzo di buon vino del Chianti ripensavaalla sua vita, a quando era un pargoletto in grembo alla mamma,a quando gli amici delle superiori lo prendevano in giro per la suastatura, alla sua vita di ora: un ricchissimo uomo d’affari, vestitodal miglior sarto di Firenze con al polso un rolex d’oro zecchino.Il “piccolo” Duccio se ne stava a sedere in disparte avvolto neisuoi pensieri quando ad un tratto arrivò Carlo, l’amico di sempre.Il giovane Bonconventi, vestito con sole pezze addosso, eraubriaco…all’improvviso cadde a terra.La mattina seguente Carlo si risvegliò in un letto enorme, in unacamera azzurra come il cielo e con una bella ed ampia finestrache dava sul cortile posteriore della villa di Duccio Cava.Trovò un gratta e vinci sul comodino, la vincita era di dieci milionidi euro…questo vinceva davvero, come la vera amicizia.
Marco AnselmiCecco il mercante
Novella UndicesimaGrazie a Dioneo per la sua piacevole novella. Adesso miappresto a raccontare la mia che narra come un'amicizia tra dueragazzi fu d'aiuto ad entrambi i padri.Vi era a Firenze un tale Cecco, ricco e noto mercante di santereliquie. Persone da tutta la valle accorrevano a lui al fine dicomprare le sue costose e ambite merci. Tuttavia la gente nonsapeva che lui non era solamente un mercante ma anche unabile artigiano: infatti egli, in segreto, produceva manualmente iframmenti \"sacri\". Perciò si potevano contare numerosi pollici diSant'Agostino ed infiniti brandelli della veste di San Francesco.Cecco avevo un giovane figlio, chiamato Pietro, il quale, anchea causa del padre, era molto conosciuto in città e godeva di molteamicizie. Tra queste la più importante ed intima era quella conArnolfo, figlio minore di un umile contadino di nome Giovanni.Essi vivevano con il resto della famiglia in una piccola casa nelcontado.Nell'anno del pontificato di Innocenzo VII una grave carestia siabbatté sull'intera valle; perciò Giovanni, per augurarsi un buonraccolto, decise di comprare una reliquia. Il giorno stesso si recòquindi da Cecco con l'intento di informarsi sugli effettitaumaturgici e sul costo della reliquia desiderata. Avendo decisocon Cecco quale spoglia forse più adatta al suo caso ed essendovenuto a conoscenza dell'ingente prezzo, che avrebbe implicatotutti i suoi risparmi, si recò a casa per consultare la famiglia.
Essendo tutti d'accordo fu deciso che il giorno seguente sarebbetornato a comprarla.Quella mattina però, prima che Giovanni avesse impegnato ildenaro nella tanto desidera reliquia, Pietro incontrò Arnolfo.Quest'ultimo ad un certo punto della conversazione disseall'amico: \"Mio babbo più tardi andrà a comprare una reliquia datuo padre, pensa in questo modo di risolvere i nostri problemi...civediamo lì?\". Pietro, conoscendo l'inganno del padre, cercò didissuaderlo: \"Non temere Arnolfo! La carestia finirà presto, allatua famiglia non servirà spendere tutto questo denaro\".\"Mio babbo è convinto e visto quanto è testardo non cambieràidea facilmente\".\"Oh Arnolfo, mi sento costretto a svelarti un segreto che per tantianni ho tenuto celato e che tante persone ha adulato: le reliquiedi mio padre sono dei falsi creati da lui stesso\".A queste parole Arnolfo rabbrividì e senza dire altro si precipitòda suo padre.Lo incontrò lungo la strada per il negozio e precipitosamente loammonì: ” Babbo mio, non porre fiducia in quel Cecco che siannuncia proprietario e mercante di tutte le spoglie; esse sonodei falsi creati da lui stesso!”.Il padre lo guardò attonito e tacque per qualche istante, al chereplicò: “Figliuol mio, mi vuoi forse distogliere da questoacquisto? Vuoi tu forse non porre fiducia nelle sante reliquie?Esse potrebbero rivelarsi la fine di tutti i drammi”.
“Babbo non è questo ciò che intendo, voglio farti sapere cheingannatore è colui che te professi come un salvatore. Suo figlioPietro era ed è il mio amico più sincero ed è per questo che glicredo: Dio solo sa quanto può essere stato duro per lui rivelarmiquesta menzogna ordita dal suo amato padre”.Giovanni, appreso il significato di tali parole, diventò viola dallarabbia e subitamente si diresse dall'autorità volendo denunciarel'avido truffatore perché fosse arrestato e imprigionato all'istante.Arnolfo lo seguì e denunciarono il fatto. In men che non si dica idiligenti uomini in divisa avevano già trovato e bloccato, non soloil bugiardo Cecco, ma anche il sincero e leale Pietro.Questi vennero portati in caserma dove trovarono ad attenderliGiovanni e suo figlio. Arnolfo, tuttavia, si pentì profondamente diaver seguito l' idea impulsiva del padre; tradire un amico giustonon è certamente cosa da omo degno.Allorché, deluso dal proprio comportamento, si scagliò in difesadell'amico e con una sola frase fece vacillare la comprensibilesicurezza del padre; “Babbo lascia stare, non li perseguitare. Chiè così stolto da ritenere che il dito di un santo possa salvarequalcuno, allora fa bene ad essere ingannato”.Giovanni fu sì stupito da come Arnolfo avesse difeso il caroamico che non rispuose ma sorrise al figlio e si scusò innanzi conPietro e poi col padre. Quest'ultimo promise adunque di cessareogni commercio e fu lasciato libero, anche se spesso ripagòGiovanni aiutandolo nei campi.
Sofia BianchiCome in un giorno può lo destino cambiare
MONNA BETTA, MONNA BICE E MONNA FIAMMA, PIEN DIDISIO DI LIBERTA’, DI FUGGIR DECIDONO DALLABELLISSIMA FIORENZA MA LA MALA VENTURA CANGIARFARA’ LO LOR DESTINO .Fu Fiorenza assai nobile città d’arte e di lettere, ricca di dameche fresche come gigli erano.Quivi dimoravano tre giovani, né vaghe né brutte, ma vivaci evolubili alquanto. Avean nome Monna Betta, Monna Bice, MonnaFiamma e tra loro non potean essere più diverse: la prima alta,come un bastone magra rifinita, al posto della voce una trombettaavea; la seconda bassa, formosa alquanto, sempre con unbiondo cane in giro soleva andare; la terza sempre mesta stava,con un viso pallido che così nemmen la morte avria potuto ridurloma colta era assai. Una cosa in comune le tre donzelle aveano:di brama d’avventura e di libertà eran ghiotte.Un dì s’accordarono di lasciar la loro città e per terre lontanepartire, ma niuna cosa li lor parenti dovean sapere altrimentibattute molto le avrebbero; così ciascuna dall’altra disse didormire; 500€ a testa dai risparmi tolsero e in S. Maria Novella amezzanotte si trovarono. Non avean ancora deciso qual metascegliere, quando un treno per Ravenna presso loro si fermò. Daldisio colte e non da alcuna cagion guidate, su di questo salironoe subito a ciarlar si diedero su che una volta giunte fattoavrebbero e volò il tempo su quel pezzo di ferro fino a quando,da un sussulto zittite, s’accorsero d’esser giunte a destinazione.
Scese dal treno, un dilemma si pose: che fare? Chi volea andarper negozi, chi per librerie e chi per piccioni...giacché il fedelecane, che le sue abitudini perdere non volea, a Monna Biceattaccato s’era e, come mai nessun uccello visto avesse, correaa perdifiato dietro a essi con la sua padrona che a stento ilseguiva.Le tre giovani, dal ridere sopraffatte, decisero di seguire un vialeche certamente in un nuovo posto, preferibilmente senza sìfastidiosi uccelli, le avrebbe portate. La felicità di Monna Bice fupiena quando una pasticceria in un angolo apparve; quiviirruppero pria il cane e poi le fanciulle che, delle tre pasteordinate, solo una spartirono giacché, con la forza de li muscolisuoi, lo cane le altre in terra buttate avea e di gusto le mangiava.Poi fu la volta di Monna Betta la quale, vista una libreria, al disiodi entrarvi non resistette. Avendo quattro libri comprati e asufficienza denaro speso, a vagar le tre si rimisero. A fin dellastrada giunte, un monumento scorsero che la tomba di qualcheillustre individuo esser parea. Essendo Monna Fiamma di culturapiena, subito esclamò: ”Dante! Quivi giace lo nostro sommopoeta che li Fiorentini cacciarono!” Le altre due, più del canedistratte, subito un’iscrizione lessero e a Fiamma dissero:” O dichi si parla? Forse di quel poeta che dietro a Beatrice per tutta lavita corse senza nemmen un bacio riceverne?”Al che Monna Fiamma come il suo nome s’accese:“ Lo sommopoeta di tutto in vita fece per la sua amata città, ma li sciocchi
Fiorentini lo esiliarono per voler d’un papa che ora all’infernoforse giace. Esiliato, di tutto egli fu privato, ma non del disio di farritorno. Tal disio mai fu appagato giacché il partito a lui avversoin città s’era insediato. A Ravenna ultima dimora trovò e quivi lamorte lo raggiunse.”“Noi ancor non capiamo- dissero le altre- lo rispetto che provi peruno che la vita passò a scriver sdolcinate poesie, a girar attornoad una donna che sua moglie non era, a combattere per una cittàche poi lo ha deluso”.“Ma come posso io –disse Fiamma- mancar di provar stima perun uomo che a una città traditrice le spalle in cuor suo non volsenonostante più e più volte la maledisse; egli sempre a Fiorenzapensò, ad essa e a Beatrice solo il suo pensiero andava seppurentrambe rifiutato l’avessero”.E le altre come chiocce in coro: ”Di un fallito la descrizione tufai!”Al che Fiamma, d’ira piena, come i botti di S. Giovanni esplosetanto da far tremar pure lo cane che nel frattempo un piccioneavea puntato: ”Chiocce avide e stolte! Li piaceri vostri solo lomangiar e il comprar sono; giacché tu leggi, Monna Betta, dicultura averne dovresti, ma lo dubbio m’assale che tu compra elegga solo le riviste che è uso trovar dalle acconciatrici! Ciò chenoi fatto abbiamo, bello è per noi che giovani siamo, ma non perli parenti nostri che ora a cercarci per la città tutta saranno.Possiam forse noi tal dolore dimenticare? “
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